Le dernier coup de marteau – Recensione
Dopo aver colpito nel 2010 con Angele et Tony, torna, ma stavolta in concorso, Alix Delaporte con Le dernier coup de marteau, un viaggio, alla ricerca delle proprie origini, alla ricerca di qualcosa che si è perso, ma che è fondamentale per capire chi si è e poter crescere, ma anche un delicato racconto formativo di un figlio che impara a rapportarsi con la vita e i genitori all’entrata dell’adolescenza.
La pellicola, infatti, ci racconta di un 14enne che abita con la madre in una comunità confinante con quella dei gitani. Quando si ritrova per la prima a varcare le soglie del teatro dell’Opera a Montepellier il giovane non sa nulla né della musica classica né che il direttore d’orchestra, Samuel Rovinski, è suo padre. Cercherà così di costruire un futuro migliore per se stesso e per la madre, ma non solo, anche per la ragazza che ama.
Sul tema della crescita, il cinema ci ha costruito su tutto un genere; il coming-of-age, che, in particolar modo nel cinema americano, riguarda le commedie a volte ben fatte, altre sboccate e altre ancora demenziali. Alix Delaporte, invece, ci regala un film drammatico quasi alla Truffaut, fortemente emotivo che viaggia sulle corde del cuore tanto quanto della musica.
Victor, un simil Antoine dei 400 Colpi, si trova in quel età dove tirare un calcio ad un pallone è ancora importante, ma se una bella ragazza in costume da bagno si frappone tra lui e la partita, il calcio passa immediatamente in secondo piano.
Il ragazzo si trova ad affrontare con coraggio il tumore della madre così che la Delaporte crea, in particolar modo sul finale in un climax crescente, delle sequenze davvero emozionanti ed estremamente delicate. Per un genitore che conosce, ce n’è un altro che è per lui un completo sconosciuto e l’unico modo per avvicinarsi è attraverso la musica che fa da vero e proprio veicolo di emozioni, nonché di dialoghi taciuti tra i due.
La Delaporte utilizza per raccontare i due genitori dagli occhi del ragazzo, due tipi di linguaggi differenti. Per il padre si gioca sul senso dell’udito, per la madre su quello del tatto, con entrambi in comune il senso della vista: il primo con la musica che si fa movimento di mani, il secondo con le mani che si fanno musica muovendosi per abbracciare. Se uno è, quindi, un linguaggio fisico, di presenza e vicinanza, quello col padre è in qualche modo etereo, vive a distanza attraverso le note della Sinfonia di Mahler.
Un’armonia questa che sente Victor, che riesce a mettere anche in campo da calcio lì dove la fisicità si fonde col suono, dove la musica per il ragazzo passa dalla testa alle gambe. Una fusione che avviene anche nel momento in cui il giovane accende la stereo e fa sentire la musica alla madre invitandola a non mollare. È in quella scena che padre e madre tornano assieme anche senza vedersi, ma attraverso il suono e ad un ragazzo che impara a crescere attraverso diversi linguaggi.
Le dernier coup de marteu è una pellicola delicata ed emozionante, che dimostra, ancora una volta come il cinema francese riesca a raccontare i giovani come nessuna altra cinematografia riesce.
Sara Prian