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Posh – Recensione

Ricchi, viziati, arroganti, spietati. Sono gli aggettivi usati nel lancio del film Posh.
Quattro parole che riassumono un mondo di privilegi e ricchezza, appannaggio di un’élite di giovani rampolli appartenenti a famiglie in vista della Gran Bretagna di oggi come di ieri (l’immaginario Riot Club del titolo originale viene fatto risalire al Settecento). Ragazzi posh (sinonimo di elegante, lussuoso e snob) che assumono comportamenti deprecabili all’università ma che da adulti potranno occupare poltrone importanti lavorando per il governo, le banche, la legge. 
Tratto dalla pièce teatrale di Laura Wade, Posh racconta la storia di un gruppo di studenti di Oxford ammessi nello storico ed esclusivo Riot Club, fondato nel lontano 1776. I ragazzi pensano di lasciare un marchio sulla scia delle figure leggendarie che ne hanno fatto parte e, all’inizio di un nuovo anno accademico, reclutano due nuovi membri, Alistair e Miles, due giovani molto diversi tra loro. Ma, durante una serata a base di alcool ed eccessi, un grave incidente rovina la loro reputazione. Due le strade possibili: accusare il club per discolparsi, rischiando di essere estromessi per sempre dal giro di chi conta o barattare il proprio silenzio in cambio di un brillante futuro.
Un’altra cattiva ‘educazione’ per la regista danese Lone Scherfig. Dopo essersi fatta notare per il film An Education nel 2009, la regista ha messo mano a un brillante copione teatrale (un successo al Royal Court Theatre nel 2010 e nel 2012 al West End Theatre di Londra) poi trasformato in sceneggiatura per il cinema dalla stessa autrice Laura Wade. La scelta della Scherfig (voluta fortemente dal produttore Pete Czernin e dalla Wade) si è rivelata perfetta per svariati motivi. Il necessario distacco tipico di un’autrice straniera sul mondo britannico, già rivelatosi con An Education, è diventato fondamentale per portare la pièce sul grande schermo. Laddove lo spettacolo teatrale si concentrava sulla ricca cena che per tradizione si svolge alla fine di ogni semestre, ma soprattutto sulla consuetudine reale di uno di questi Club di distruggere il ristorante in cui si teneva lo scanzonato convivio pagando poi per i danni arrecati, il film opta per una dilatazione del racconto in più tempi e luoghi, con una lunga prima parte incentrata sulla storia del Riot Club e sul reclutamento di due nuovi arrivati nella prestigiosa università di Oxford, Miles e Alistair, e con una coda finale che mostra le nefaste conseguenze della notte brava. L’approfondimento dei caratteri di tre ragazzi del Riot Club (i due nuovi arrivati e uno dei membri storici dalle nobili discendenze), le loro dinamiche, la loro interazione, è un valore aggiunto della pellicola.
Miles (Max Irons) è un ragazzo con meno privilegi degli altri, di mentalità più aperta (inizia una love story con una studentessa di provenienza più umile), Alistair (Sam Claflin) è un giovane più rabbioso che deve convivere all’ombra di un fratello maggiore, mitico presidente del Club negli anni passati, Harry (Douglas Booth) è un fascinoso schermidore professionista, figlio di un duca, perverso e sicuro di sé. I tre nuovi “belli” del cinema britannico, Max Irons (figlio del grande Jeremy e già interprete di The Host), Sam Claflin (noto per il ruolo di Finnick Odair nel film Hunger Games: La ragazza di fuoco) e Douglas Booth (il bel Romeo di Romeo e Giulietta di Carlo Carlei), offrono prove convincenti mescolando fascino, sensualità, rabbia, sfrontatezza.
La giovane upper class viene dipinta dalla Scherfig con il giusto distacco, intenta a crogiolarsi nel proprio posto privilegiato occupato ancora oggi nella società britannica, provando profondo disprezzo per quella borghesia che si crede desiderosa soltanto di scalate sociali (è al rabbioso Alistair che viene affidata una della battute più forti del film contro “la borghesia che ci odia ma che vorrebbe essere come noi”). Ma quello che alla regista danese riesce meglio che nel suo precedente An Education, è insinuare nello spettatore una sotterranea corrente di “attrazione macabra” per questi giovani così vanesi, spocchiosi e così tendenti alla delirante autoesaltazione di sé e del proprio pedigree. Attrazione che si trasforma presto in repulsione soprattutto nella scena clou della cena, in un’escalation di violenza cieca e sprezzante maschilismo (l’umiliazione di due ragazze e il pestaggio del proprietario del locale, colpevole di rappresentare quella mediocrità borghese tanto odiata, sono sequenze drammaticamente disarmanti), ritratto impietoso di quel microcosmo degli esclusivi Club universitari anglosassoni (nessun voluto riferimento però, ha tenuto a precisare il produttore, al Bullingdon Club di cui fu membro l’attuale Premier britannico James Cameron), simbolo di una società che sotto sotto tiene cara per sé la protezione delle sue élite.
Il pregio maggiore della pellicola sta proprio nella capacità di scavare nel fondo della natura umana, mostrandone quella violenza e ferocia che si fanno ancora più becere proprio quando vengono dai rappresentanti posh delle classi più privilegiate della società. Una ferocia che una patina di perbenismo e compiacenti silenzi sono disposti a coprire in nome della perpetuazione di un ‘sistema’ dalla facciata democratica ma che cela ancora tanto marciume e troppi lati oscuri.

Elena Bartoni  

 

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