Take Five – Recensione – 2
Opera seconda di Guido Lombardi, dopo Là-bas – Educazione criminale, vincitore di due premi alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011, con Take Five (presentato nel 2013 al Festival del Cinema di Roma) il regista campano decide di mettere in scena un crime movie corale, che vede tutti i protagonisti alla ricerca di un riscatto sociale, di una seconda possibilità. Nonostante l’accurata regia però, sceneggiatura, dialoghi e la sensazione di trastullo troppo ricercata, tolgono fluidità e serietà alla pellicola, che con qualche accorgimento in più, sarebbe senz’altro stata migliore.
Carmine (Carmine Paternoster) un giovane idraulico viene chiamato a riparare una perdita d’acqua nel caveau di una banca e vedendo la quantità di soldi all’interno, ed essendo sempre indebitato, decide di organizzare una rapina. Intorno a lui si costituisce la squadra, formata da un gangster depresso (Peppe Lanzetta), un ricettatore (Gaetano di Vaio), un pugile finito (Salvatore Ruocco) e un ex rapinatore che ora fa il fotografo (Salvatore Striano). Niente però, è destinato a funzionare come dovrebbe.
Heist movie made in Italy, con un pizzico di elementi di gangster e crime movie, Take Five, esce sui grandi schermi italiani regalando una storia di crimine ma con uno stile particolare, in salsa partenopea, con una struttura classica, alcune scene divertenti, ma poco più.
Ben lontani sono i tempi de I soliti ignoti (1959) di Mario Monicelli, anche se è innegabile la chimica che lega i cinque protagonisti della banda. Tutti con una storia diversa alle spalle, hanno la camorra come elemento che li accomuna e la medesima voglia di riscattarsi.
Lontano dal neorealismo espresso con Là-bas – Educazione criminale, Lombardi mette in scena una pellicola che ricorda il successo statunitense de Le Iene (1992), ma anche ed inevitabilmente, Gomorra (2008). Impossibile, con un genere ed argomenti già sperimentati, riuscire ad essere originali, cosa che, dalla sceneggiatura è ben evidente, nonostante alcune sfumature grottesche e tragicomiche, che riescono a divertire.
Da riconoscere c’è però una grande abilità dietro alla macchina da presa, il regista infatti, sembra curare molto questo aspetto, forse a discapito del resto, riuscendo a convincere per quel suo taglio internazionale, in particolare per l’uso dei chiaroscuri, che dimostra come il cinema italiano possa gareggiare con quello d’oltreoceano.
Dall’altra però, i ralenti, il parlare in dialetto e la costruzione attraverso flashback, tende a diminuire la fluidità del racconto, finendo per dar vita ad un film che si può definire quasi incompleto. Un vero peccato per una pellicola che poteva regalare molto di più, ma che concentrandosi troppo sul virtuosismo registico, ha sacrificato la narrazione.
Alice Bianco