Soul Boys of the Western World – Recensione
Tony Hadley, John Keeble, Steve Norman, Gary e Martin Kemp ovvero gli Spandau Ballet: eccoli sul red carpet del Festival di Roma per presentare il film-documentario su di loro, il gruppo-fenomeno degli anni ’80, idoli del pop new romantic capaci di far sognare milioni di ragazzine (le ultraquarantenni di oggi) sulle note di successi immortali come “Gold” o “True”.
Nella sezione Gala della kermesse romana è stato presentato Soul Boys of the Western World diretto da George Hencken, un viaggio nel cuore degli anni ’80 e nella storia della band. Attraverso filmati inediti del gruppo e materiale recentemente riscoperto, il film traccia un affresco del panorama culturale, politico e personale che fece da sfondo al successo della band.
Dagli inizi alla fine degli anni ’70, alla prima importante apparizione pubblica nel 1980 nella trasmissione televisiva “Twentieth Century Box” (il programma giusto per farsi conoscere dal pubblico giovanile) fino allo scioglimento alla fine degli anni ’80, il film appare qualcosa di più della classica operazione ‘agiografia’ su una pop band del passato. Soprattutto per una prima parte interessante che sofferma lo sguardo sulla scena musicale e culturale londinese della fine degli anni ’70 e dell’inizio degli ’80 con quel fervore dato da un movimento punk in fase di autodistruzione e da un pullulare di gruppi come i rockabilly, i soul boys e il nascente movimento “new romantic”. Grande creatività, nella musica come nella moda, che prendeva spunto dal fervore dei piccoli locali di Soho.
E’ qui che si innesta la voglia di qualcosa di nuovo nei cinque ragazzi figli della classe operaia londinese: Tony, Steve, John, Gary e Martin, ognuno con un bagaglio personale di gusti e modelli (la stessa regista ha sottolineato come la diversità di ispirazione caratterizzasse gli Spands, di come Tony Hadley amasse il punk e Steve Norman il soul).
Ed ecco la chiave giusta: una miscela di pop orecchiabile, look curato, pulizia, eleganza. Erano loro, i “Blitz Kids” (dal nome del locale storico in cui si esibirono nel 1979, quando non avevano ancora un contratto discografico) figli di Bowie, soul boys bianchi che rifiutano il rock in nome dell’elettronica e vanno in scena abbigliati con camice piene di ruches e smoking.
Passano pochi anni dal primo singolo “To Cut a Long Story Short” e arriva il successo planetario nel 1983 con “True”. Seguono i trionfali album dei pieni anni ’80 come “Parade” e “Through the Barricades”. Gli Spandau regnano sulle classifiche insieme ai loro “rivali” storici Duran Duran, sono spesso ospiti del programma cult “Top of the Pops”. Sono superstar mondiali.
La loro parabola dura per tutti gli anni ’80, proprio gli stessi dell’Inghilterra thatcheriana. Gli Spands si sciolgono alla fine del decennio, dopo l’ultimo album “Heart Like a Sky” del 1989 e prendono strade diverse: i fratelli Kemp lavorano come attori nel film The Krays – I corvi (poi Gary recita nel film Bodyguard con Whitney Houston e Martin conquista la fama recitando in una serie della BBC), Tony Hadley intraprende una carriera da solista, Steve Norman si immerge nel panorama della musica house collaborando con doversi deejay e suona il sax in giro per il mondo. Poi, dopo una causa legale che li ha visti scontrarsi nel 1999 in tribunale per i diritti d’autore e diversi anni di lontananza, la reunion per un tour nel 2009/2010.
Merito della regista George Hencken, allieva di quel Julien Temple maestro nell’arte del documentario musicale, è di aver fatto un grande lavoro di ricerca scovando preziosi materiali inediti e restituendo un perfetto ritratto di anni cruciali per la ventata di rinnovamento che portarono con sé, tra musica, moda, design, arti grafiche. Il film sovrappone brani musicali, interviste dell’epoca e commenti di oggi e incornicia il tutto con un efficace ritratto del contesto storico nel quale il gruppo ricercava il nuovo “sound del futuro”. Non viene tralasciato neppure l’aspetto del contraccolpo psicologico per cinque ragazzi che, catapultati di botto nel vortice del successo, seppero goderne fino in fondo. I numeri sono da capogiro: 23 singoli presenti nelle classifiche britanniche per oltre 500 settimane e 25 milioni di album venduti nel mondo (“True” è stata suonata 4 milioni di volte solo nelle radio americane!). Un sogno avverato.
E ora la reunion, con tutti i rischi del caso.
Una vero ritorno alla grande per la band che, oltre a questo documentario Soul Boys of the Western World (nelle sale italiane solo il 21 e 22 ottobre), vede anche l’uscita di un nuovo album “The Very Best of Spandau Ballet: The Story…” con tre brani inediti (“This Is the Love”, “Steal” e “Soul Boy”) e un nuovo tour mondiale (“Soul Boys of the Western World Tour”) che porterà gli Spands in Italia in primavera.
Operazione nostalgia fuori tempo massimo? Astuta strategia di marketing? Forse si, ma commuoversi per l’indimenticabile refrain sospirato di “True” o esaltarsi per la coinvolgente performance live di “Gold” mostrata nel finale di questo esplosivo docu-film non ha mai fatto male a nessuno.
Elena Bartoni