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La spia – A Most Wanted Man – Recensione

Nel suo giorno di chiusura, la nona edizione del Festival del Film di Roma omaggia il grande attore Philip Seymour Hoffman, prematuramente scomparso lo scorso febbraio. E lo fa con l’ultima sua  grandiosa interpretazione, La spia – A Most Wanted Man, tratto dall’omonimo romanzo del 2008 di John Le Carré e diretto da Anton Corbijn (fotografo e regista di celebri videoclip oltre che del film su Ian Curtis, leader dei Joy Divisions, Control e del thriller The American). 
Nel film il grande attore domina letteralmente la scena essendo presente quasi in ogni fotogramma nel ruolo di Günther Bachmann, agente segreto antiterrorismo attivo ad Amburgo negli anni successivi all’11 settembre impegnato in un’indagine su un personaggio misterioso, Yssa Karpov, un giovane ceceno la cui madre è morta dandolo alla luce dopo essere stata stuprata dal padre, un oligarca russo. Bachmann dovrà capire se il giovane ha veramente rinnegato il padre o se sta in realtà finanziando un professore universitario in apparenza dedito a benefiche raccolte di fondi ma probabile finanziatore occulto di attività terroristiche connesse con Al-Qaeda.
Indagando in modo attento e analitico, concentrandosi sul gioco a lungo termine, Bachmann dovrà fare i conti con lo strapotere della CIA (in particolare con l’agente Martha Sullivan interpretata Robin Wright) e con i vertici politici.
A comporre il complesso puzzle, entrano poi in gioco anche un banchiere inglese (Willem Dafoe) e una giovane avvocatessa idealista impegnata in favore dei diritti umani (Rachel McAdams) che sta cercando di aiutare il giovane ceceno.
Ma il film di Anton Corbijn ha un altro personaggio, la città tedesca di Amburgo dove si aggira il misterioso Yssa (il titolo originale del romanzo era “Yssa il buono”), un luogo simbolico, per certi aspetti terra d’elezione di molti terroristi come Mohamed Atta e per questo testimone dei molti cambiamenti avvenuti nel mondo dopo l’11 settembre. Una città fotografata nel suo lato tenebroso, mostrata come una sorta di ‘zona grigia’ in cui abitano personaggi ‘grigi’ che non sono né del tutto eroi né del tutto vittime, non del tutto buoni o cattivi. Una città ripresa con una scelta di luce perfetta (Corbijn non a caso viene dal mondo della fotografia).
La spia – A Most Wanted Man è un film su un mondo diverso, sul mondo cambiato irreversibilmente dopo la profonda ferita del 2001.
Il complesso intreccio (come sempre nei romanzi di Le Carré) ci mostra anche un universo dello spionaggio, oggi profondamente diverso da quello di ieri.
 A questo proposito le parole del regista Corbijn suonano estremamente lucide e attuali: “Ero molto interessato all’idea che dopo l’11 settembre si sia esasperato il conflitto tra culture e che, per via di quel dolore, sia cambiata la nostra attitudine verso l’altro, giudicato con pregiudizio. Era la cosa che mi affascinava di più di quel libro, l’essere specchio di come oggi viviamo le nostre vite”. 
Una regia dall’andamento sottile e insinuante (d’altronde il lavoro di Gunther è insinuarsi nelle vite degli altri) conferisce un marchio di eleganza a un film impreziosito da un gruppo di attori in gran forma, dall’immenso Seymour Hoffman a Willem Dafoe, fino alle presenze femminili di Rachel McAdams e Robin Wright.
La spia – A Most Wanted Man è una pellicola classica, dallo stile morbido e debitore di atmosfere un po’ anni ’70 (i rimandi a La talpa, tratto da un romanzo dello stesso Le Carré, sono evidenti), lontana dai ritmi iper-veloci e dai corredi hi-tech dei film di oggi.
Un’opera che parla quasi sottovoce e che si presenta con un basso profilo, ma ricca di sfumature, soprattutto nei suoi personaggi: uomini e donne percorsi da una forte volontà di arrivare al bersaglio, da una instancabile spinta a farcela, anche quando sanno di combattere contro forze più grandi di loro.
Personaggi come Günther Bachmann, un uomo che non fa sfoggio di forza o prepotenza, non alza la voce, non usa prevaricazione: perché, contro la paura che serpeggia ormai costantemente nel nostro mondo ferito da esplosioni e crolli devastanti, non servono aggressività miope e mal diretta o ansia di controllo, ma un lavoro attento, pignolo, costante, forse anche logorante, di persone come lui. Un personaggio, appunto, logoro (dentro e fuori), stropicciato, stanco, ferito, forse perdente, certamente sofferente. E mai come in questo caso la sofferenza del personaggio è tutt’uno con quella del suo interprete: Philip Seymour Hoffman giganteggia, ‘è’ il film, la sofferenza del suo Günther Bachmann è la sua sofferenza, la stessa incurabile ‘malattia’ che lo ha portato a una fine così prematuramente tragica lasciando un vuoto incolmabile (e non è una frase fatta) nel panorama cinematografico mondiale.

Elena Bartoni
 

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