The Rover – Recensione
Polveroso, crudo, ostile sia ai protagonisti che ad uno spettatore costretto a fare i conti con una storia forse un po’ pesante ma ricca di significato, che scava nel pubblico e e lo immerge in ambientazioni dimenticate da Dio, remote, dove l’animo umano fa i conti con se stesso.
Futuro apocalittico in un deserto australiano dove un uomo (Guy Pearce), viene derubato dell’unica cosa rimastagli: l’automobile. L’uomo si mette così sulle tracce dei ladri, ma durante la caccia si troverà costretto ad accettare l’aiuto di Rey (Robert Pattinson), fratello di uno dei membri della banda, che è stata lasciato indietro in quanto più debole e convinto morto.
Sono passati anni dal quell’ottimo film che era Animal Kingdom, ed ora David Michôd, aiutato nel soggetto dall’attore Joel Edgerton, sforna un altro buonissimo film, più di atmosfera e contemplazione che di azione, anche se non mancano momenti in cui il grilletto viene premuto.
Siamo in un periodo post apocalittico, ma Michod non se ne cura, non è quello che gli interessa per il suo scopo, a lui interessa indagare l’essere umano, portare lo spettatore a conoscere cosa spinge il protagonista senza nome a rischiare tutto per recuperare un oggetto, all’apparenza insignificante, come la propria auto.
Le ambientazioni di The Rover sono dei veri e propri personaggi all’interno del film e riescono a collocare le vicende in una sorta di ritrovata primordialità, dove vige la vecchia regola della giungla, dove homo homini lupus è all’ordine del giorno. Non c’è, infatti, mai tentennamento nelle scelte di eliminare certi ostacoli dal proprio percorso da parte del protagonista: lui deve raggiungere quell’obiettivo e per farlo non deve mai pensare, ma seguire l’istinto, quasi come un animale allo stato brado. Ma se gli animali, spinti dallo spirito di sopravvivenza imparano a fare comunità e a diventare più umani, l’uomo fa il contrario e non riesce più a sentire lo spirito di fratellanza che lo rendeva unico.
La sceneggiatura è semplice, con poca sostanza, eppure Michod ci regala una pellicola forte, potente, dove il cineasta fa qualcosa di diverso, dedicandosi più alla sua struttura filmica che ad una storia, ridotta all’osso, ma che comunque riesce, magicamente, a colpire lo spettatore nel profondo.
E la potenza principale sta nei suoi personaggi sperduti, contemplativi, aridi dentro, ma con una scintilla pronta a riaccendersi anche nell’amore (come dimostra la toccante scena finale). Sono loro che assieme ai paesaggi definiscono il contesto, ci fanno entrare in un mondo senza più alcuna legge, dove vige la regola del più forte.
Michod vuole farci entrare con tutti i due piedi in quella terra, facendocela respirare ed assaporare e, per fare ciò, è costretto a ridurre al minimo la struttura narrativa che risulta però funzionale allo scopo che si propone il cineasta. Cioè quello di creare una pellicola che scava nei personaggi, li consegna al proprio spettatore perché li analizzino oppure perché si lascino a malapena sfiorare, donandoci una storia d’umanità dove crude emozioni e riflessioni si fondono filtrate dall’aspetto visivo affascinante e coinvolgente e da due protagonisti come Pattinson e Pearce che funzionano perfettamente.
Sara Prian