Il nome del figlio – Recensione
Non esattamente un remake, piuttosto un rifacimento italiano (meglio ancora, una rilettura) della commedia francese Cena tra amici (Le Prénom), grande successo teatrale (nel 2010) e poi cinematografico (2012) scritto da quel duo di geniali giovani autori che rispondono ai nomi di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte.
Il nome del figlio si svolge tutto in una serata, durante la quale si svolge una cena a casa di Betta (Valeria Golino), professoressa della scuole medie, e di suo marito Sandro (Luigi Lo Cascio), colto scrittore e professore universitario. La coppia aspetta Claudio (Rocco Papaleo), musicista e amico d’infanzia di tutti e due, Paolo (Alessandro Gassman) fratello di Betta, immobiliarista rampante e sempre pronto alla burla, e sua moglie Simona (Micaela Ramazzotti), ex conduttrice tv divenuta famosa per aver scritto un bestseller piccante e ora incinta. Il gruppo deve festeggiare la grande notizia: il bimbo in arrivo è un maschio. Ma sulla questione del nome da dare al nascituro si accende una discussione che sconvolgerà quella che doveva essere una serata serena.
La famiglia, a cena. C’è un mondo. Mariti e mogli, genitori e figli, fratelli e sorelle, per non parlare degli amici di famiglia. Un girotondo di verità e bugie, amori e dis-amori, frustrazioni nascoste e rabbie represse, e chi più ne ha più ne metta, tra un primo piatto, un secondo e un dolce (sempre che ci si arrivi). La cena di famiglia è stata il teatro perfetto di un vero e proprio filone cinematografico, soprattutto qui da noi: da La cena di Ettore Scola passando per La famiglia dello stesso regista, da Parenti serpenti a Speriamo che sia femmina entrambi di Mario Monicelli. Solo per citare due maestri della gloriosa commedia all’italiana.
Tornando alla pièce di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte, c’è da dire che è stata già riadattata in diversi paesi, da Israele ad alcune nazioni dell’America Latina, e che nel frattempo il duo francese ha già portato in palcoscenico Le dîner d’adieu (La cena d’addio) in cui gli interpreti litigano intorno a una causa di divorzio e ora sta per presentare (la prima è prevista per il 4 febbraio) Papa ou maman, dove i genitori separati si contendono l’affidamento dei figli. Il filone è assolutamente vincente, non c’è che dire.
Questa rilettura, di cui sono autori la Archibugi insieme a Francesco Piccolo, aggiunge però del pepe tutto italico alla gustosa cenetta francese. E così, con il pretesto burlone di un nome scomodo da dare a un bebè in arrivo (nella versione francese un nome universalmente imbarazzante, qui un nome più vicino alla nostra Storia), ecco infiammarsi gli animi facendo leva sulla classiche contrapposizioni (forse un po’ troppo già viste) destra-sinistra, tra intellettuali radical-chic, rampanti destraroli furbetti e arroganti, ex borgatare ripulite.
Ecco a voi i Pontecorvo, famiglia ebrea della Roma borghese con villa sull’Argentario e tanti ospiti per ogni estate. Ed è qui che il film della Archibugi si distingue dalla commedia francese, nello scavo nel passato di quegli anni Settanta così familiari e nel suo rapporto con il presente e con il futuro. Perchè è proprio da quei giovani rampolli Pontecorvo, Betta e Paolo, e dai loro amici, che nasce il seme dell’Italia di oggi: da quegli ultra quarantenni arrivati “nel duemila, alle porte dell’universo” come canta Lucio Dalla in una delle sequenze più riuscite del film (impreziosita dal brano “Telefonami tra vent’anni”). Accanto a loro, interpretati da un poker d’assi come Gassman, Lo Cascio, Golino, Papaleo, la più giovane Simona, che ne smaschera le ipocrisie con una naturalezza a tratti grezza ma spesso disarmante (a cui Micaela Ramazzotti conferisce un’anima sincera). E qui la commedia della Archibugi abbandona i luoghi comuni delle divisioni politiche per approdare a una più stretta analisi socio-psicologica di un gruppo di personaggi vittime delle disillusioni del passato, capaci di litigare ma anche di perdonarsi e tornare a comunicare grazie a una nuova vita che arriva in un finale carico di simboli.
Resta però un’ultima doverosa annotazione: al di là dei meriti della regista di aver saputo adattare alla realtà del Belpaese il felice copione firmato de la Patellière e Delaporte, dispiace constatare che il cinema italiano, per partorire qualche felice risultato, abbia bisogno troppo spesso di prendere spunti dalla commedia d’Oltralpe (ricordiamo solo i casi più eclatanti di Benvenuti al sud e Benvenuti al nord).
Quello che resta è la delicata e abile mano di una ritrovata Archibugi, che torna finalmente alla regia dopo Questione di cuore del 2008 firmando un film indubbiamente piacevole, l’innegabile maestria dello sceneggiatore Francesco Piccolo e il talento di un gruppo di attori davvero in gran forma.
Elena Bartoni