Suite francese – Recensione
Deposto in un cassetto, nascosto dalla furia Nazista, incompiuto. Questo fu il destino di Suite Francese, libro di Irène Némirovsky prima che la donna venisse deportata ad Auschwitz per trovare la sua fine e prima che la figlia lo ritrovasse e lo desse alle stampe. “È una sensazione straordinaria quella di aver riportato in vita mia madre”. Un libro fortunato nella sua sfortuna, che avrebbe dovuto far parte di un Poema sinfonico in cinque parti e che, grazie a Saul Dibb è diventato, invece, celluloide.
I personaggi hanno preso vita grazie alle interpretazioni magistrali di Matthias Schoenarts, Kristin Scott Thomas e Michelle Williams. Quest’ultima è Lucille, una giovane donna che, in attesa del marito al fronte, si innamora di un ufficiale, Bruno (Schoenarts), appartanente all’esercito tedesco occupante.
La musica può unire i popoli, la musica non vede le differenze, non traccia un confine tra nemico e amico. La musica è come l’amore: cieca di emozioni, super partes, vede con le orecchie e tocca con il cuore. Alla base della Suite Francese, infatti, c’è la musica, il pianoforte che fa uscire le note e avvicina due mondi che, in quel preciso momento storico, dovrebbero stare lontani.
Saul Dibb ci regala un melò che dipinge con attenzione il micro mondo della provincia, impazzito dopo l’arrivo del macro mondo bellico. Soldati da temere perché sono il nemico, ma nel segreto amati, in quanto persone. Ed è proprio la parola “persone” ad essere il fulcro dell’intera vicenda. Dibb non traccia mai una linea netta tra tedeschi e francesi, ma cerca di vedere oltre. Il vero nemico sono le persone stesse, non importa in che fazione siano, non importano per chi parteggino, perché le autorità locali, pur di salvarsi, diventano peggio degli occupanti tedeschi. Perseguitano e impongono tasse, non sono in grado di provare pietà. E allora il nemico è alle porte o è sempre stato nascosto nella comunità?
Suite Francese mette l’essere umano davanti alla sua vigliaccheria, dalla quale ad esserne immuni sono solo Lucille e Bruno. Il loro è un microcosmo a parte che Dibb tratteggia con sapienza, circondandoli di un mondo da cui il loro distacco è evidente, dando così maggior risalto ai loro momenti d’intimità, lì dove l’amore si impone sulla guerra. Anche loro, come la musica, sono super partes, si elevano oltre gli altri, si uniscono come note di una partitura che funziona solo se le note si accompagnano le une alle altre come, invece, non accade nel paesino di provincia.
Una pellicola che riesce a non cadere nel banale e nel troppo sentimentale, avvicinandosi alla vita vera più di quanto avremmo mai sperato.
Sara Prian