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Full Contact – Recensione

Dramma psicologico di produzione croata, suddiviso in tre atti. Si incentra su un soldato addetto alla manovra dei droni, dunque assassino a freddo di individui dalle fattezze mediorientali che non guarderà mai negli occhi. La sua coscienza già provata riceve il colpo di grazia quando causa la morte di alcuni innocenti, per colpa di un errore dei superiori. Cerca scampo nella solitudine dei grandi spazi, e trova solo altro sangue. Finalmente, la pratica dello sport del titolo (che si presta ad interpretazioni metaforiche) e l’amore di una ragazza sembrano l’appiglio per uscire (forse) dal proprio inferno. Dalla regia di David Verbeek si genera un impatto proporzionato alla sobrietà ed asciuttezza della scrittura. L’introspezione dà priorità ai primi piani impietosi, insiste sul significato di lunghi silenzi quasi metafisici, parte dallo sguardo e dall’immobilità per leggere le emozioni dei personaggi. Tra di esse, la prima a risaltare è la più antica delle umane percezioni: la paura, da cui la violenza e la diffidenza. Nel terzo atto il tono di fa in qualche modo più disteso, e c’è posto per un barlume di serenità e di speranza. Difficile parlare di polemica antimilitarista, è semmai un film “duramente pacifista” che narra la ricerca di un nuovo ordine da parte del singolo individuo senza assolvere né giudicare a priori. Da segnalare la performance di Grégoire Colin, sulla cui straziante interpretazione è giustamente focalizzata la maggior parte delle inquadrature. Bell’esempio di riflessione non scontata nata dalla cronaca.

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