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Julieta – Recensione

Un drappo rosso di stoffa leggera veste una donna e nasconde il suo respiro: sotto, batte il cuore una madre. Si apre così il nuovo ‘almodramma’ Julieta, storia di una ‘mater’ dolente che si trova a vivere il dramma di un abbandono.
La storia è liberamente ispirata a tre racconti del premio Nobel canadese Alice Munro (“Fatalità”, “Fra poco” e “Silenzio” raccolti nel volume “In fuga”) che Almodóvar trasferisce dal freddo Canada alla solare Spagna.
Julieta ha deciso di lasciare Madrid per trasferirsi in Portogallo con il compagno. La donna libera la casa e riempie di ricordi alcuni scatoloni. Ma l’incontro casuale con Beatrix, un’amica d’infanzia di sua figlia Antía, la convince a cambiare i piani e rimanere a Madrid. Sono tredici anni che Julieta è lontana dalla figlia, partita per sempre all’età di diciotto anni senza lasciare traccia. Dopo essersi trasferita nel vecchio condominio dove abitava con la figlia, Julieta inizia a scrivere un diario destinato ad Antía in cui racconta la sua storia. Inizia così un lungo flashback che parte dal 1985.

Un “drama seco, sin gritos” cioè un dramma secco, sobrio, senza strepiti: è così che Almodóvar definisce questo suo ventesimo film. Un’opera talmente asciutta che sembra che il regista abbia impedito alle sue attrici di piangere durante le riprese (potevano farlo solo nelle pause): due maschere ferme, paralizzate nel loro dolore, prigioniere di un senso di colpa che diventa quasi catatonia. Un ritratto femminile che fa i conti con l’ineluttabilità del fato.
Il dolore di una madre si sdoppia nelle due attrici chiamate a vestire lo stesso ruolo, Emma Suárez e Adriana Ugarte. Le loro interpretazioni si avvicendano in una ellissi temporale e un asciugamano marrone fa da spartiacque tra le due Julieta: l’una, giovane dal bel viso e dai capelli ossigenati piena di amore e di vita, l’altra, segnata e spenta dalla colpa.
Julieta è un film diverso dagli ultimi del regista spagnolo: nessun balletto di personaggi, niente umorismo, parodia, pastiche di generi, nessun intrigo. Solo il rosso Almodóvar è ancora (significativamente) presente. Il primo piano su un tessuto rosso che richiama un sipario apre il film, ma di stoffa lieve si tratta, quella che veste Julieta.
Come al solito il cromatismo ha un significato rilevante nel regista spagnolo: il rosso quindi, ma anche il bianco, viene usato in maniera altamente simbolica, il bianco delle pareti vuote del nuovo appartamento in cui si trasferisce la protagonista per seppellire la memoria di una figlia scomparsa da anni. Julieta cerca una figlia, non sa perché se n’è andata senza dire una parola.
Più che melodramma (o ‘almodramma’), di tragedia si tratta, dove il destino la fa da padrone e dove la colpa è il fulcro del film. Il senso di colpa permea la vita della protagonista, segnata da due tragici addii prodotti dal caso e che sono rimasti sulla sua coscienza. Il primo, che avviene su un treno, è quello di un uomo che tenta di fare conversazione con Julieta, ma la ragazza, infastidita, si alza e lo lascia solo; poco dopo, durante una delle fermate, l’uomo si getta sotto il treno. Il secondo addio è segnato dall’ultimo sguardo che le lancia Xoan, il pescatore conosciuto su quello stesso treno e con cui Julieta forma una famiglia. Proprio lo sguardo del padre di sua figlia resta indelebile nella memoria della donna che evita un confronto chiarificatore dopo una discussione.
Il senso di colpa passato ricade sul presente quando Julieta lo trasmetterà alla figlia e quando, dalla porta di casa, guardando Antía scomparire sulle scale, ricorda lo sguardo dei due uomini.
Passato e presente si intrecciano nell’uso delle ripetizioni. E’ come se l’essere umano fosse coinvolto involontariamente in situazioni che ha già vissuto prima. E’ come se la vita concedesse l’opportunità di sperimentare i momenti più duri prima che effettivamente arrivino.
Il tumulto interiore vissuto dalla protagonista (rappresentato dal mare in tempesta che si vede dietro alla finestra della casa sulla costa galiziana dove Julieta va a vivere con Xoan) deve fare i conti con il fato, come in una tragedia greca (non a caso Julieta è un’insegnante di letteratura greca).
Ma la presenza di un personaggio simbolico ed inquietante come la domestica di Xoan (cui presta il volto l’attrice-feticcio Rossy de Palma) colora la tragedia di note hitchcockiane.
Julieta è un film distante dall’ultimo Almodóvar ma allo stesso tempo profondamente fedele agli stilemi del suo cinema. La presenza di tre elementi ricorrenti nella sua filmografia, come la città, la casa e il corpo, rendono la pellicola intrisa di pura sostanza almodovariana.
Madrid, ovvero la città presente in quasi tutti i suoi film, la casa (questa volta tre case, piene di elementi simbolici) e il corpo, o meglio ‘i’ corpi femminili e maschili (con grande rilevanza del corpo maschile nelle sculture di grande valore metaforico dell’artista Ava).
Sospeso tra i due poli dell’esistenza umana, la vita e la morte (emblematica la sequenza del treno i cui la protagonista entra in contatto con l’amore fisico in risposta a una morte improvvisa), Julieta è un melò a forti tinte noir che disegna un fatale percorso del destino, un film stratificato e complesso, ricco di forma ma anche di sostanza drammaturgica.
Un Almodóvar che parla ancora una volta profondamente al cuore e a cui sembrano calzare alla perfezione queste parole di Jorge Luis Borges: “Soltanto ciò che è morto ci appartiene, soltanto ci appartiene ciò che abbiamo perso”.

Elena Bartoni
 

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