The Bad Batch – Recensione – Venezia 73
Sbarca alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, The Bad Batch, la seconda opera della regista Ana Lily Amirpour, che aveva stupito con A Girl Walks Alone at Night (2014), ponendo al centro la figura di una vampira iraniana un po’ particolare, ora oltre all’atmosfera, a cambiare, anzi a migliorare è l’intero film, distopico, crudo e pregno di significati.
In una distesa desolata del Texas una comunità di cannibali vive in una realtà quotidiana post-apocalittica, a contrapporsi, la comunità del Comfort. I protagonisti sono Miami Man (Jason Momoa), Arlen (Suki Waterhouse), Jimmy (Diego Luna), The Dream (Keanu Reeves) e The Heremit (Jim Carrey). Entrambe le “tribù” sono dedite alle faccende quotidiane, l’unica differenza è rappresentata dal cibo e dalle prospettive nelle quali credono.
Essere un lotto difettoso, un Bad Batch, un individuo disadattato è questa la piaga che attanaglia i protagonisti del film. Arlen, Miami Man, Jimmy, The Dream, The Heremit e gli altri abitanti di quella distesa deserta, sono stati allontanati e relegati a quel paesaggio senza possibilità di sopravvivenza, perché “difettosi” appunto, non degni di vivere.
Chi clandestino, chi vagabondo, chi drogato, sono questi gli essere umani classificati come di “terza classe”, dei poveri considerati l’ultimo gradino della scala sociale. Tra loro però si è creata una spaccatura: i più poveri si nutrono di carne umana, mentre coloro che vivono a Comfort vivono una vita agiata, mangiando spaghetti, facendo figli e ballando.
Il personaggio di The Dream è per antonomasia il simbolo del mondo del benessere. Il lusso che lo attornia però, non attrae Arlen, anzi, se ne vuole distanziare. Allo stesso tempo anche il cannibalismo, che l’ha condannata, è una cosa dalla quale si vuole alienare, cercando di convertire colui che da clandestino si è ritrovato a fare i conti con la fame, quella di carne umana.
Cannibalismo a parte, The Bad Batch racchiude in sé numerosi significati: si va dalla distruzione del sogno americano, alla morte e rinascita perfetta, senza difetti, della razza umana, il tutto impreziosito da un’atmosfera decadentista.
Ana Lily Amirpour con The Bad Batch dimostra grande maturità. Rispetto all’opera precedente ha dedicato più attenzione ai dettagli, alla fotografia curata sempre da Lyle Vincent, ma anch’essa più matura, così come la sceneggiatura: pochi dialoghi, azione, tanto silenzio e un perfetto stile visivo, che affascina e stupisce.
Il film potrebbe essere facilmente affiancato ad uno di Nicolas Winding Refn, soprattutto dal punto di vista visivo, così come per la colonna sonora e gli importanti sottotesti della pellicola, per un ottimo prodotto con un’eroina femminile potente, che come con Brimstone, riesce a convincere e stupire.
Alice Bianco