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Lion – Recensione

La Selezione Ufficiale della decima Festa del Cinema di Roma si chiude con Lion, commovente film tratto da una storia vera, diretto dal regista australiano Garth Davis, qui al suo primo lavoro per il cinema dopo l’esperienza con la serie televisiva “Top of the Lake”.
Basato sul romanzo “La lunga strada per tornare a casa” di Saroo Brierley, Lion racconta la storia di Saroo, un bambino della regione del Khandwa nel cuore dell’India rurale. A soli cinque anni una sera, Saroo segue il suo fratello maggiore Guddu per cercare di rimediare del carbone da vendere in cambio di cibo, ma si addormenta su una panchina  nella stazione di Ganesh Talai. Svegliatosi, cerca il fratello e finisce per salire su un treno sbagliato in cerca di aiuto. Si siede e si addormenta ritrovandosi a più di 1500 chilometri di distanza a Calcutta. E’ la metà degli anni ’80 e, dopo tanto girovagare e dopo aver patito la fame e gli stenti, viene ritrovato dalla polizia ma non riesce a spiegare il suo luogo di provenienza, ha soltanto in mente l’immagine della stazione dalla quale era partito. Finisce in un orfanotrofio dove un’assistente sociale gli dice che una sua foto è stata pubblicata su un giornale di Calcutta ma nessuno ha mai risposto. Saroo viene quindi adottato da una coppia australiana, Sue e John Brierley, e va a vivere con la sua nuova famiglia a Hobart in Tasmania. Il bambino si adatta alla sua nuova vita per più di vent’anni. Nel 2008 diventato un giovane di belle speranze, Saroo va a fare un corso per manager alberghiero a Melbourne, lì incontra Lucy, una sua collega di corso. Mentre tra Saroo e Lucy nasce un inteso legame, nel giovane nasce spontanea la voglia di farsi domande sulle sue radici. Convinto che sua mamma lo avesse cercato per molto tempo, Saroo intraprende una difficile ricerca animato da una grande forza di volontà. Con l’aiuto di Google Earth, cerca di risalire alla stazione dove aveva preso il treno sbagliato e al luogo d’origine della sua famiglia.

Una bella storia, un viaggio emotivo ad alto tasso di commozione quella di Saroo Brailey. Va da sé che si trattava di un soggetto perfetto per il cinema e così, complice la sceneggiatura di Luke Davis, la storia è diventata film, Lion (il motivo del titolo lo lasciamo scoprire allo spettatore).
Gli ingredienti per la facile lacrima ci sono tutti: l’ambientazione tra le grandi zone povere dell’India, la voglia di conoscere se stessi e le proprie radici, il valore della famiglia e dei legami profondi che non si dissolvono mai, la forza della speranza e l’ineluttabilità del destino.
I momenti chiave su cui si concentra il film sono fondamentalmente due: la storia di Saroo bambino in India (con una mamma che si guadagna il pane raccogliendo pietre e un fratello più grande che vuole seguire alla ricerca di soldi) e la sua vita di ragazzo australiano prestante e promettente che avverte forte il bisogno di ricercare la sua vera famiglia.
Diverse sono le scene struggenti del film come quella in cui il piccolo Saroo a Calcutta interrogato da poliziotti insiste a gridare il nome del fratello e il nome sbagliato del suo villaggio ma nessuno lo capisce perché parla hindi e non bengalese.
La regia di Garth Davis funziona a fasi alterne, dispensando nella prima parte bellissime scene ambientate in India, tra la regione rurale e poverissima del Khandwa e la caotica Calcutta degli anni ’80 e indugiando sulla pacata bellezza del continente australiano nella seconda parte.
Qualche colpo inizia a perdersi però con i primi flash di Saroo adulto. La cena a Melbourne cui il ragazzo prende parte con una compagnia multietnica di compagni di studio tra cui alcuni amici indiani, la riscoperta dei sapori della cucina tipica della sua terra (soprattutto la visione di un dolce tipico della sua regione) che fa scatenare in lui uno struggimento forte, una nostalgia finora sconosciuta verso la sua terra d’origine, è una miccia facile pronta accendere la presa di coscienza del bisogno imprescindibile di ritrovare la sua vera famiglia.
Sul fronte delle interpretazioni, la nota positiva è un bravissimo Dav Patel nei panni di Saroo adulto e il piccolo Sunny Pawar, eccezionale sorpresa nei panni del protagonista bambino. Accanto a loro, un’intensa e ispirata Nicole Kidman nei panni della madre adottiva e una più monocorde Rooney Mara nel ruolo della giovane Lucy.
Tangibile è il marchio fabbrica-successi dei produttori esecutivi Bob e Harvey Weinstein che ha argutamente scelto come protagonista la giovane star indiana Patel, che aveva raggiunto la fama grazie al film-fenomeno The Millionaire.
A prima vista Lion appare come un film ad alto tasso di commozione ottenuta con facili mezzi: poche parole (soprattutto nella prima parte) che lasciano lo spazio a sensazioni, alcune scene madri piuttosto ovvie nella parte finale (il dialogo di Saroo con la sua madre adottiva prima di partire per l’India), e poi ancora, visioni tra passato e presente, paesaggi sconfinati e binari di treni, famiglie, continenti, oceani. E infine un abbraccio struggente, quasi infinito.
Speranza, determinazione, amore, gioia, sensazioni forti ottenute forse con mezzi facili, ma qualche lacrima in più per una storia vera a lieto fine non ha mai fatto male a nessuno.   

Elena Bartoni
 

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