Collateral Beauty – Recensione
Cos’è la ‘bellezza collaterale’? La risposta a questo interrogativo racchiude l’essenza di questo film.
“Sono tutte quelle cose che diamo spesso per scontate o di cui addirittura neanche ci accorgiamo ma che sono presenti ogni giorno, come un tramonto… oppure da cogliere al volo, come il sorriso di un bambino” ha spiegato il regista David Frankel.
Esistono milioni di esempi di ‘bellezza collaterale’, ha continuato il regista, “sono il motivo che ci spinge ad andare avanti”, soprattutto nei momenti tragici delle nostre vite.
Un grave lutto ha sconvolto la vita del protagonista Howard (Will Smith), un guru del marketing in campo pubblicitario abituato a vincere, che ora si trova a vivere in uno stato d’inerzia. Howard vive in uno stato di stasi permanente e non sa come ripartire. La sua unica consolazione sembrano essere le lettere che scrive al Tempo, all’Amore e alla Morte in cerca di risposte. Ma i suoi colleghi ed amici, Whit (Edward Norton), Claire (Kate Winslet) e Simon (Michael Peña), cresciuti professionalmente insieme a lui, non si danno pace dopo aver tentato di tutto per riportare Howard in superficie dagli abissi in cui è sprofondato. Nello stesso tempo si battono per tenere a galla la compagnia in sua assenza. Ma senza la sua vena creativa i conti sono negativi e il futuro è incerto, tanto che l’unica opzione ragionevole sembra essere quella di vendere. Ma Whit ha un’idea per riportare Howard alla vita attiva: assoldare tre attori per impersonare Amore, Morte e Tempo e dialogare con lui, scuotendolo e aiutandolo a capire che la sua vita non è finita.
Il tema era molto accattivante, senza dubbio, ma lo svolgimento di questo Collateral Beauty presenta molte pecche. Certo il copione di Allan Loeb (autore anche delle sceneggiature di Noi due sconosciuti, altro dramma sul dolore di una perdita, e di Wall Street: il denaro non dorme mai di Oliver Stone) non era facile da trasferire sul grande schermo. Il fatto che la storia contenga molte derive, ha reso complesso il lavoro: da un lato l’aspetto melodrammatico (il protagonista e il suo grave lutto), dall’altro le più interessanti implicazioni metaforiche e simboliche (e qui entrano in gioco i tre attori chiamati a vestire i panni di Amore, Morte e Tempo). Il film di Frankel (che ha al suo attivo titoli come Il diavolo veste Prada, Il matrimonio che vorrei e Io & Marley) ha una struttura complessa e ramificata, ma soprattutto un copione ambizioso basato su una sospensione tra realtà e finzione che non ingrana mai.
La perdita di una figlia di soli sei anni ha fatto si che al protagonista venisse meno la voglia di vivere, ma questo non è il solo dramma della storia, tutti e tre i suoi amici e collaboratori più stretti hanno la loro dose di sofferenze: Whit è odiato dalla figlioletta dopo la separazione dalla moglie, Claire vuole un figlio con l’inseminazione artificiale perché pensa che sia troppo tardi trovare un uomo, Simon vive il ripresentarsi di una malattia allo stadio terminale che aveva già combattuto in passato. Non solo, anche i tre attori chiamati a personificare Amore, Morte e Tempo (interpretati rispettivamente da Keira Knightley, Helen Mirren e Jacob Latimore) sono tre persone in difficoltà ridotte a provare uno spettacolo in un polveroso teatrino off-Broadway. Certo è che si sarebbe potuto usare in maniera più proficua l’espediente delle lettere alle tre entità che mettono in contatto ogni essere umano sulla terra.
Peccato vedere temi importanti trattati con superficialità, peccato ancora vedere liquidate in modo semplicistico domande cruciali sul senso della vita, peccato infine per un cast stellare sprecato in una serie di ruoli che non convincono (la prima della lista è Kate Winslet imprigionata nel ruolo di Claire, una donna che per anni ha sprecato troppe energie sul lavoro tralasciando la vita privata). Unica eccezione, Helen Mirren il cui talento immenso riesce a infondere una certa grazia mista a leggera ironia alla personificazione della Morte.
Con un copione così complesso si è scelto invece di giocare facile, costruendo un film natalizio (anche se in Italia l’uscita è slittata al dopo-Capodanno) dalla lacrima pronta, complice l’ambientazione studiata ‘ad hoc’ in una New York nel periodo delle feste di fine anno tra luci scintillanti e veli di malinconia.
Si cerca la commozione dello spettatore a buon mercato e con facili aforismi come quello messo in bocca al protagonista intento a riflettere come: “Desideriamo l’amore. Vorremmo avere più tempo. E temiamo la Morte”.
Ma tutta la costruzione drammaturgica non regge neanche per la durata (piuttosto breve) di 97 minuti e crolla come i pezzi del domino della scena d’apertura, tasselli che cadono l’uno dietro l’altro e che rappresentano l’immagine pretestuosamente simbolica su cui è costruita la fragile struttura di un film che non accende nessun ‘contatto’ con lo spettatore naufragando in uno smielato quanto prevedibile finale.
Elena Bartoni