The Happy Prince – Recensione
Un principe felice decaduto, un genio in lotta contro un mondo che lo rifiuta e lo considera un reietto, un uomo debilitato nel corpo e nell’anima, Oscar Wilde negli ultimi anni della sua vita era tutto questo. Scegliendo l’immagine di un racconto dello stesso Wilde, la favola “The Happy Prince”, evidente metafora di un uomo indebolito nel corpo come la statua del principe viene privata di ornamenti, Rupert Everett aspira a toccare uno dei punti più alti della sua carriera.
L’attore inglese (che, bello e dannato venticinquenne, nel film che lo ha lanciato Another Country pronunciava una frase che è un manifesto wildiano “Volevo essere famoso o infame”) era forse l’unico artista al mondo che poteva permettersi di portare in scena un personaggio così complesso e controverso. Everett mostra di poter fare di tutto, scrivendo, dirigendo e vestendo i panni di un artista che conosce profondamente con cui condivide molto, avendolo interpretato con successo qualche anno fa a teatro in “The Judas Kiss” di David Hare e avendo recitato nella trasposizione cinematografica di due celebri pièce wildiane come L’importanza di chiamarsi Ernest e Un marito ideale.
Everett ci ha messo dieci anni per realizzare questo film, scegliendo la favola “The Happy Prince” per titolare il racconto degli ultimi anni di vita di Oscar Wilde.
Dopo il periodo dei grandi successi letterari e teatrali, la vita di Oscar Wilde è al crepuscolo. Nel 1897 esce di prigione dopo aver scontato una condanna di due anni. Lo scrittore aveva citato per calunnia il marchese di Queensberry, padre dell’amante Lord Alfred Douglas (detto Bosie), che lo aveva definito sodomita. Dopo un primo processo, il marchese era stato assolto e in un secondo processo Wilde era stato condannato per sodomia. Sbeffeggiato e insultato, Wilde era stato rinchiuso in carcere condannato ai lavori forzati. Il film racconta gli eventi seguenti alla scarcerazione. Invecchiato, provato, sofferente di otite purulenta, malato di sifilide, lo scrittore si rifugia a Parigi in una modesta pensione. Come in un sogno, rivive i ricordi del suo passato glorioso, quando era un artista idolatrato dalla stessa società inglese che lo aveva poi crocifisso.
Wilde prova grande rimorso nei confronti della moglie Constance per aver gettato lei e i loro figli nello scandalo dopo la sua condanna e rivive in un continuo tira e molla la sua passione per Lord Alfred Douglas (Colin Morgan). Girovagando tra la Normandia, Napoli e Parigi, precipita in un vortice senza ritorno. Ad accompagnarlo nei suoi ultimi giorni, c’è solo l’amore e la dedizione di Robbie Ross (Edwin Thomas) e l’affetto del suo più caro amico Reggie Turner (Colin Firth).
The Happy Prince è molto di più che una ricostruzione degli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, è un film complesso con molti riferimenti alla contemporaneità. È un film politico nel suo focalizzarsi sul sacrificio di un grande autore che scelse di scontare una dura pena dopo la condanna per omosessualità invece che la fuga. In un certo senso Wilde fu il primo uomo a portare alla ribalta della storia la battaglia per i diritti degli omosessuali. Everett stesso ha dichiarato: “La sua è stata la prima storia di omosessualità davvero pubblicizzata. Le libertà per cui abbiamo tanto combattuto sono iniziate con i suoi sacrifici”.
E se si pensa che solo nel 2017 l’Inghilterra ha fatto ammenda per la condanna inflitta allo scrittore, il film lancia davvero un importante messaggio politico prima che umano.
L’amore come sentimento assoluto e universale pervade tutto il film. Wilde esule in Francia percorre sempre più la strada dell’autodistruzione, beve assenzio, abborda giovanotti, è alla ricerca di quel ‘piacere’ fulcro della sua poetica e della sua arte. Quello che resta è un uomo alla disperata ricerca dell’amore, uno che non smette di credere nel potere di questo sentimento (“La sofferenza è nulla quando c’è l’amore. L’amore è tutto”).
Perso in cafè chantant di quart’ordine, il Wilde di Everett sa tenere in perfetto equilibrio grandezza e povertà, tenerezza e provocazione, sofferenza della malattia e freddure ancora fulminanti.
Everett giganteggia per tutto il film, The Happy Prince è Rupert Everett, uomo e artista affascinante e discusso, da sempre. In ogni fotogramma si percepisce lo spirito più vero di Wilde, quello che non nasconde la sofferenza dietro agli atteggiamenti di dandy decadente e lascivo, quello che fatalmente cade nel percorso di un’inevitabile rovina da lui stesso tracciato: un tema particolarmente sentito dall’attore inglese che qui si rivela ottimo sceneggiatore e sensibile regista. Un film voluto fortemente da cui trasuda la caparbietà e l’amore di un artista per il suo autore di culto. Evidente è il parallelismo fra due vite vissute in modo scandaloso. Anche Everett ha avuto un debutto fulminante, seguito da alti e bassi, in parte frutto di una omosessualità mai nascosta, anzi esibita anche se in tempi non pronti per un coming out.
Affascinante, coinvolgente, commovente, un grande artista ridotto a elemosinare spiccioli ma ancora capace di raccontare a bambini e ragazzi (e in flashback ai sui figli) la favola del “Principe felice”, il Wilde di Everett convince in pieno e strappa l’applauso a scena aperta.
“Io sono l’Impero alla fine della decadenza”, l’incipit del celebre sonetto di Paul Verlaine che associa lo stato d’animo di languore del poeta al quadro storico della decadenza dell’impero romano invaso dai barbari potrebbe esprimere perfettamente l’animo del Wilde uomo e artista dipinto da Everett. Il senso più pieno del decadentismo è espresso in questi versi: il languore come malattia dell’anima e condizione di inerzia intellettuale, solitudine, passività.
Il fascino del finire delle cose e la contemplazione della morte espresse da Verlaine sono le stesse del consumato Wilde che attende la fine raccontando la sua favola del “Principe felice”. Perché anche lui fu, a suo modo, un principe felice, che progressivamente si era spogliato di ciò che aveva.
Elena Bartoni