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Recensione di Avatar

Nel 2154 un marine paraplegico viene inviato tramite interfaccia mentale su Pandora, pianeta immenso e incontaminato i cui giacimenti minerali sono nel mirino di una compagnia interplanetaria terrestre, disposta a tutto pur di sfruttarli. L’incontro con gli abitanti, gli alieni Na’vi, lo porterà a schierarsi a difesa dei nativi. Nel recensire un film come Avatar, che dovrebbe aprire una nuova era per il mezzo cinematografico tramite la tridimensionalità dell’immagine, non si può prescindere dal giudizio tecnico. A ragione molti oggi disapprovano il fatto che film nati in 2D vengano poi virati al 3D in postproduzione a scopo puramente commerciale, altri attaccano il 3D in quanto tale come mero stratagemma per spillare soldi agli spettatori (vedi il critico Robert Erbert). Il problema con Avatar è proprio che le buone intenzioni, al di là degli incassi, ci sono ma non corrispondono ai risultati. Il film nasce per la visione in 3D, ha l’ambizione di stupire ed emozionare come mai una storia in due dimensioni potrebbe fare, eppure togliendo gli occhialini durante la visione non si avverte nessuna necessità di indossarli di nuovo, nessuna “imprescindibilità” del godere il film in quella forma. Una pellicola concepita in 3D dovrebbe avere nella tridimensionalità una “condicio sine qua non” per la visione, proporla in due dimensioni dovrebbe insomma equivalere al vedere  il “Mago di Oz” di Fleming su una tv in bianco e nero: viverlo solo al 60%. Cameron dice di aver voluto evitare l’effetto “oggetto che colpisce il pubblico” tipico del 3D anni ’50 per puntare piuttosto sul senso della profondità di campo, ma al di là del giudizio su questa scelta, non riesce ad assorbire lo spettatore nell’azione, non comunica mai quel  brivido sulla schiena che si avverte quando quel che accade sullo schermo ti sta “toccando”. Le immagini che fuoriescono sono come fantasmi che ti sfiorano lasciandoti indifferente. Facile, appurata la delusione, far notare una trama troppo risaputa e banale, da molti paragonata a quella di Pocahontas (e in effetti l’accostamento al dramma degli Indiani d’America viene ancor più spontaneo di quello con l’invasione dell’Iraq), certe ripetitività dovute anche a una lunghezza eccessiva che ritarda a dismisura lo scontato finale (e una ulteriore “extended edition” è in arrivo!), i personaggi stereotipati (volutamente eccessivo in questo senso il colonnello cinico e bastardo di Stephen Lang). Da salvare comunque la prestazione di tutti gli attori, anche quelli celati dal “motion capture” e il sottile erotismo di alcune sequenze, che nelle intenzioni iniziali doveva essere più che allusivo. Forse Avatar andrebbe visto e giudicato più serenamente in tv e in 2D, recuperando così quei molti dettagli di regia che la (non essenziale) visione in 3D ha portato via.

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