Recensione di John Rambo
Il combattente veterano John Rambo è ormai da anni ritirato in Thailandia, dove lavora come traghettatore. Quando però dovrà accompagnare alcuni missionari nella vicina Birmania, dove la tirannia locale opprime con ferocia sanguinaria una minoranza etnica, capirà che è il momento di imbracciare nuovamente le armi. Alla sua settima prova da regista Stallone ci sorprende in positivo regalandoci un prodotto parecchi gradini al di sopra dei due precedenti capitoli della saga, sia a livello formale sia a quello emotivo. Certo l’esaltazione della forza come la giusta via per il trionfo della giustizia e la figura dell’eroe invincibile vera guida verso la libertà possono ancora essere accusati di un semplicismo spostato a destra, ma è innegabile, stavolta, la capacità di coinvolgere lo spettatore e di suscitare autentica empatia verso il protagonista e la causa per cui combatte. Laddove i Rambo 2 e 3 erano ormai ridotti a rozzo strumento di apologia verso una guerra, quella in Vietnam, che la maggioranza riteneva essere stata ingiusta e deleteria, qui si parte chiaramente da una sincera e genuina adesione di Stallone alla lotta di popolazioni ancora oppresse da una dittatura ignobile. L’ indignazione di Sly verso le barbarie realmente commesse in Birmania riesce a diventare anche la nostra (a chi è degli anni ’80 possono venire in mente alcuni episodi dell’anime “Ken il guerriero” per come alcune sequenze sappiano suscitare disprezzo per l’aguzzino) tanto che ben difficilmente il termine “gratutito” viene in mente, anche nell’assistere alle scene d’azione più crude. Se teniamo conto che il tutto è sostenuto da una regia mai noiosa, con buona gestione del ritmo e della tensione, e che la prestazione degli attori americani e asiatici è impeccabilmente funzionale (inclusa la non eccezionale espressività di Stallone) possiamo dire che stavolta il fine ha giustificato i mezzi.