Recensione di La ragazza che giocava con il fuoco
Mentre Mikael, tornato a dirigere la rivista Millenium, sta per pubblicare un’inchiesta sul traffico di donne proveniente dall’ Est Europa, si imbatte in una notizia sconvolgente: Lisbeth è in fuga, accusata di triplice omicidio. Le indagini porteranno al doloroso passato della ragazza. Il sottoscritto ammette di non aver letto, stavolta, il romanzo originale prima di iniziare la visione del film, pur essendo a conoscenza dei tagli che hanno martoriato questa trasposizione. Deve constatare però come la suddetta visione lo abbia fatto pentire di non essersi orientato direttamente alla lettura del libro. Se già il primo capitolo era una fredda esposizione del romanzo priva di vita cinematografica, tanto da campare di rendita sulle idee dell’ autore per le poche emozioni offerte (solo a chi non lo avesse già letto si intende), qui la nuova regia fa si che la noia sia sovrastata dall’ irritazione. Ce ne è abbastanza per mettersi le mani nei capelli: i risvolti drammatici (certo meno densi di crudezze mostrate in primo piano rispetto al film precedente) non riescono a suscitare un soprassalto che sia uno, le scene d’ azione sono dirette con la piattezza di una tavola da surf e sfiorano spesso il ridicolo, persino la rappresentazione di coloro che commettono il male manca di mordente e non riesce a suscitare il ribrezzo che dovrebbe. Non che la volta precedente le figure dei villain fossero gestite molto meglio (escludendo il personaggio di Bjorman). Inoltre, probabilmente a causa dei tagli sopra citati, la vicenda in se risulta confusa, intricata, stipata di fatti, dopo mezz’ora la mente si ribella a un simile pastrocchio e inizia a pensare ad altro. Quanto agli attori, appurata la totale inespressività del 99,9% del cast, Lisbeth/Noomi Rapace è sempre lei, ma dire che in questo contesto sia mal servita da sceneggiatura e regia è un eufemismo. Ah, una scena di sesso saffico teneramente consenziente può da sola giustificare il “v.m.14” appioppato nelle sale italiane?
L’andamento del film non somiglia a quello di un horror o di un thriller ma più che altro a quello di un dramma psicologico incentrato su una famiglia il cui mondo è destinato ad andare in frantumi. Il fanatismo religioso cala sul padre dei due giovanissimi protagonisti come una malattia improvvisa, ponendo il più grande di fronte a un genitore si ancora amato ma ormai ingestibile. Anche l’elemento fantastico, presente in dose massiccia (apparizioni mistiche, la visione del male commesso dal “demone” toccandone la fronte) è funzionale alla descrizione di quella follia e lo spettatore difficilmente sospetta l’effettiva veridicità di questa componente soprannaturale. Il fatto che la missione assegnata al signor Meiks non si presenti come verità inoppugnabile (a differenza di quanto avveniva al protagonista di “Unbreakable” di Shamalan) priva di motivazione e comunque con compiaciuti momenti di violenza, lasciando solo la sensazione di una tragedia senza via d’uscita. Purtroppo mentre il Paxton attore riesce a rendere il suo personaggio con ammirevole capacità di immedesimazione, ben accompagnato dal resto del cast, il Paxton regista non riesce a portare fino in fondo la scelta di instillare angoscia nello spettatore a piccole dosi e senza ricorrere a soluzioni cruente. Il racconto paga queste ambizioni con lentezze a tratti eccessive.