Recensione di: Animal Kingdom
Il Festival Internazionale del Film di Roma è decisamente entrato nel vivo, e lo fa presentando nella Selezione Ufficiale Fuori Concorso “Animal Kingdom”, del regista australiano David Michod, opera prima che gli è valsa il Gran Premio della Giuria allo scorso Sundance Film Festival. Il film è ambientato a Melbourne, e ci mostra senza reticenze e sin dalle prime immagini, come il sottobosco malsano della piccola criminalità organizzata possa avere radici “culturali” differenti, ma che fondamentalmente conserva la stessa potenza distruttiva in ogni parte del mondo. Il “Regno Animale” del titolo è quell’universo nel quale sopravvivere non è prerogativa del più intelligente o del più giusto, ma di coloro che sanno adattarsi a quei meccanismi senza fare troppe storie. Josh (l’esordiente James Frecheville) in seguito alla morte della madre per overdose è costretto ad entrare nella “famiglia” della nonna subdola e manipolatrice (una straordinariamente brava Jacki Weaver), la cui spirale distruttiva finirà per coinvolgerlo in un dedalo metropolitano fra traffici di droga ed omicidi insieme agli zii, capitanati da Pope (Ben Mendelsohn). In soccorso del giovane arriva il poliziotto Nathan Leckie (Guy Pearce), il quale userà ogni mezzo in suo potere per trascinarlo fuori da quella giungla spietata, indenne e senza conseguenze (perlomeno apparenti). Ma qual è il prezzo da pagare? Può un ragazzo, maturo solo nell’aspetto fisico, spingersi oltre la soglia consentita e poi tornare indietro senza intoppi? Il film scorrevole nella prima parte, pecca di eccessiva prolissità in quella conclusiva, reiterando una soluzione finale che, dato il nostro cinismo e la nostra disillusione moderna, non possiamo non aspettarci.