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Recensione di: Qualcuno volò sul nido del cuculo

Un film di un enorme carica rivoluzionaria. Evidente la metafora, voluta dal regista Milos Forman, cecoslovacco riparato in america dopo l’invasione russa del ‘68. L’ospedale-prigione è lo “stato”, i malati che vengono “ammansiti” con medicinali che li rendono allegri e non pensanti sono i cittadini. Si dà loro una noiosa ma tranquillizzante routine che li spegne e li tiene buoni. Quando arriva un elemento riottso per natura che cercherà (con successo) di scuoterli, la repressione sarà dura e implacabile. Ma non vincente del tutto, perché qualcuno alimenterà la speranza, scappando e dunque pronto a sostituire chi è stato cancellato. Insomma dietro facili (e amare) risate c’è un grido di denuncia nemmeno tanto nascosto. Che scuote, che fa riflettere, che allarga le coscienze. Uscito in sordina, “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, deflagrò clamorosamente dopo la notte degli Oscar ’75, quando tra la sorpresa generale (anche di chi aveva realizzato il film) si aggiudico le 5 statutette più importanti. E da film a basso costo, di denuncia, voluto da un giovane produttore e ancora non famoso attore, Michel Douglas,  “il nido del cuculo”, divenne un film di prima grandezza. Oltra a un grande Jack Nicholson, videro il vero battesimo cinematografico Danny De Vito (il buffissimo Martini), Christopher Lloyd (non ancora il professore genio di Ritorno al futuro) e Louise Fletcher che aveva fin lì fatto solo televisione. Tutti insieme e con il conforto di una colonna sonora, accattivante il giusto e non invasiva, contribuirono alla riuscita di un film strepitoso che magari non seguì alla lettera il romanzo di Kesey da cui era tratto,  ma fu capace di scuotere gli animi e di far riflettere anche attraverso lo sfruttamento di una categoria, quella dei malati di mente, trattata con tocco leggero e sapiente. Un film che dopo 35 anni è ancora attuale. Un film voto 10!

Pino Cerboni

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