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Recensione di: Il petroliere – There will be blood

È sangue nero come il petrolio quello che scorre – come promesso dal titolo – a fine pellicola. Petrolio è sangue e viceversa: l’animo nero dell’uomo compie la sua odissea nello spazio. È la l’altro lato della medaglia del 2001 kubrickiano: P.T. Anderson costruisce la sua odissea ribaltandola, tutta in negativo. Il monolite si liquefa e diventa petrolio: il primo quarto d’ora iniziale che vive di soli suoni come la sequenza iniziale del 2001 di Kubrick, è però rovesciata. Non più il monolito si palesa donandoci l’umanità (che per Kubrick è già sempre la sopraffazione dell’uno sull’altro che si esplica nell’evoluzione tecnologica, laddove vale l’equazione tecnologia=arma), ma viene scoperto dall’uomo già uomo e non più scimmia: anche il monolito finisce per diventare arma. Non un atto di nascita, ma inevitabile conseguenza della nostra umanità.
Ecco allora che PTA riprende Kubrick dilatandolo e al contempo restringendolo: Plainview è Bowman, ma è anche la scimmia antropomorfa che uccide il suo simile (così come Eli è fattualmente suo fratello – sono lo stesso attore -, ma non a livello di finzione: da questa distonia di fondo, affiora cinematograficamente l’intimo dualismo straniante dell’uomo che fa eco al soldato Joker di Full Metal Jacket). È in questo venirsi in(s)contro delle due figure che emerge la figura di Plainview in tutta la sua complessità, vera e propria metafora universale dell’uomo: da una parte pioniere, teso per sua natura ad un folle volo oltre il limite, all’infinito, dall’altro bestia, animale politico spinto da istinti omicidi. Le due cose sono connesse: andare oltre significa anche porre fine a qualcos’altro.
Ma la sete è sete di oro nero, non di conoscenza: la parabola morale disegnata da Anderson è a senso unico e senza altre vie d’uscita. È una morale che è già sempre amorale, senza speranza di redenzione, laddove il sangue e petrolio coincidono e sono ineluttabilmente mezzo e fine. Eccola l’odissea nera dell’uomo che si dispiega: lo sfruttamento indebito della natura e il suo ribellarsi (la ribellione tecnologica a senso invertito della scena dell’incendio: l’umanizzazione forzata della natura); il calpestamento dell’altro per arrivare alla meta, la lotta tra capitalismo e religione (entrambi declinazione del potere). Ma è una odissea fatta di menzogne: il figlio di Plainview è un falso figlio, così come il fratello; la conversione è falsa come falsa è la confessione finale: la spirale di menzogne e di ritorsioni (il gioco a rincorrrersi per tutta la vita tra Plainview e Eli) non può che trovare conclusione nella morte: il sangue deve scorrere in un modo o nell’altro.
2001 in rewind: l’ellissi temporale che fa eco a quella kubrickiana, l’osso che diventa una palla da Bowling. Ma la pista da Bowling e la casa di Plainview sono anche la camera in stile settecento, Plainview è il Bowman costretto al passare del tempo. Ma è un Bowman corrotto, risucchiato dalla sua stessa cannuccia (lo strumento capitalistico per eccellenza): non rimane che un vuoto involucro deforme e acido, in balìa di se stesso (il confronto con il Foster Kane di Quarto Potere di Welles se c’è è solo di striscio). A differenza di 2001: odissea nello spazio non c’è ritorno alla nascita, ma solo ritorno alla morte: scorre il sangue alfine. Planview padrone di tutto perfino del cinema: il film finisce quando lui ha finito, quando quello che aveva da dire l’ha detto e quello da fare l’ha fatto. Il cerchio non si chiude: spalle alla camera l’odissea di Planview è destinanata all’autodistruzione, diretto inesorabilmente verso un buco nero da lui stesso creato e, in qualche modo, voluto.
Monumentale, ambizioso, un 2001: Odissea nello spazio bagnato nelle rigide e ossessive geometrie di Shining (ma tutto in There will be blood è maniera e omaggio a Kubrick), dipinto dalla cupa e varipinta fotografia di Elswit, sostenuto dalle interpretazioni da brivido di Day-Lewis e Dano e accompagnato dalle distonie musica – immagini tipiche dei film di Anderson, There will be blood è il capolavoro di PTA. Grande autore di maniera, rimane la sgradevole sensazione che manchi sempre qualcosa: forse non è un caso che faccia man bassa di premi per la miglior regia e non per il miglior film. Ma nonostante ciò There will be blood rimane lì massiccio, maestoso, misterioso: un gigantesco monolite nero macchiato di sangue altrettanto nero. Come il petrolio, of course.

Lorenzo Conte

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