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Recensione di: Train de vie – Un treno per vivere

Il sociologo Siegfried Kracauer aveva tracciato una sottile linea che conduceva dal capolavoro espressionista Il Gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene a Hitler e i suoi orrori, già tutti anticipati e catturati dal cinema tedesco d’avanguardia. Se la linea di Kracauer era una linea sociologica, quella che collega a doppio filo il Gabinetto del Dottor Caligari e Train de vie è squisitamente cinematografica. Se nel film di Wiene l’orrore era anticipato, rinchiuso in una atmosfera, presagito tramite le storture, le deformazioni, i gesti sincopati del linguaggio espressionista, nel film di Radu Mihaileanu gli orrori sono realizzati, in atto, tanto nella realtà filmica, quanto in quella effettiva (anzi gli orrori – in senso cronologico – sono addirittura passati).
I piani coinvolti, dunque, sono molteplici e in stretto dialogo tra loro, a partire dal piano filmico/linguistico per arrivare a quello (oltre)narrativo/storico. Il cinema, oggi come allora, è in grado di ri-configurare la realtà, posizionandosi all’incrocio della realtà finzionale/filmica e di quella fattuale/storica, di cui il linguaggio è il sostrato permanente.
La Storia allora si forgia e acquista valore in questo processo ri-configurativo, laddove solo attraverso l’uso della finzione questa valorizzazione è davvero possibile. Come in Wiene, anche in Train de vie il processo è a posteriori (e non è un caso che la struttura narrativa utilizzata sia la stessa in entrambi i film). Se la realtà filmica acquista valore ontologico agli occhi dello spettatore, ecco che lo s-velamento di un ulteriore piano finzionale ristruttura i piani, invertendoli: quella che era la realtà per lo spettatore si capovolge in finzione, mentre – e proprio in virtù di questo capovolgimento – il secondo piano finzionale diventa realtà filmica prima, realtà storica, fattuale, dopo. Le aporie narrative della spericolata autodeportazione del piccolo villaggio di ebrei in fuga dai veri nazisti (in sostanza, tutto fila troppo liscio, e quando vengono scoperti il film si dimentica narrativamente dei veri nazisti, per arrivare alla scena finale dove il treno passa indenne bombardamenti di ogni tipo, oltretutto palesemente finti) si risolvono alla luce della loro vera natura, storia raccontata da un pazzo, finzione di finzione, addirittura.
Al contrario, proprio in virtù della scoperta di questa finzione di finzione, la nuova realtà filmica, che svela il racconto del pazzo davvero deportato in un campo di concentramento, riacquista valore di realtà in quanto tale e assurge a Storia in quanto testimonianza, non documento. Gli orrori dei campi di concentramento sono orrori solo in relazione di quella finzione (l’autodeportazione) che ha ricondotto i campi a quello che già erano in partenza: realtà storica e, per l’appunto, orrori. La finzione riconduce la realtà a se stessa, storicizzandola. Ecco perché i pochi versi finali sul fermo immagine del pazzo dietro il filo spinato recitano: “train de vie”, un treno per vivere. Il racconto del treno, la finzione, consente la testimonianza, quindi il ricordo: l’essere ricordati è vivere. Le persone uccise nei campi continueranno a vivere solo grazie alla finzione: il cinema si fa carico, attraverso il suo linguaggio, di mostrare questa finzione ri-configurativa della realtà in senso pienamente testimoniale e quindi storico.
A chi, allora, si indispettirà di fronte alla straordinaria avventura, assolutamente yiddish, di questo treno di ebrei autodeportati, finti nazisti (che proprio perché finti, veri), delle guerre a suon di musica, degli autoproclamatisi soviet dei vagoni (ancora una volta, la finzione riconduce a Storia), finzioni che si scontrano (l’incontro con l’altro gruppo di autodeportati) concepito, ideato, guidato da un pazzo (un vero e proprio regista, dopotutto); a chi si indispettirà di tutto questo, ritenendolo offensivo, blasfemo, di cattivo gusto, risponderà bene Didi-Huberman: sono “immagini, malgrado tutto”.
 
Lorenzo Conte

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