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Recensione di: Apocalypse now Redux
Apocalypse now è un film che si presta a infinite letture, dal Vietnam (come evento storico: i suoi guasti le sue storture, la sua tragica epicità, le critiche agli USA, ai media) alla Guerra in generale (le contraddizioni interne, le condizioni dei soldati, le loro reazioni, le relazioni amici/nemici, le esasperazioni, gli effetti). Ma soprattutto Apocalypse Now è la metafora per eccellenza della contemporaneità, e forse dell’umanità in ogni tempo e in ogni luogo. Una contro Odisssea ipnotica e lenta, tutta rivolta verso l’interno dell’uomo, diretta verso il suo cuore di tenebra. Rispetto ad un’altro film universale come 2001: Odissea nello spazio che è rivolta verso l’esterno, narrando della storia dell’umanità attraverso un uomo, metafora per se stesso della vita in quanto tale, Apocalypse now è il suo contrario opposto e complementare. Agli infiniti spazi siderali fanno fronte gli angusti argini del fiume/serpente/cavo elettrico, un percorso obbligato e senza sosta verso la morte che è anche rinascita. Dal concreto della guerra al suo dissolvimento: il tutto diventa straniante, astratto fino ad arrivare (come in 2001 d’altra parte) al non luogo, laddove tutto trascende in qualcosa di assoluto dove il classico duello finale si trascende in un confronto di anime, di assoluti. Willard e Bowman sono le facce della stessa medaglia: luce e tenebra, conoscenza e orrore. Kurtz come il monolito, la chiatta sul fiume come la Discovery, gli elicotteri che gettano napalm al ritmo delle note della Cavalcata delle valchirie di Wagner come la danza degli astri lungo le melodie del Valzer di Strauss. Trionfo e caduta e quindi rinascita, ritorno.
Le lunghe scene aggiunte per la riedizione del 2001, laddove Redux non significa, appunto, riedizione, ma reduce, dal latino, fanno di Apocalypse now un’opera ancora più complessa, compiuta, al limite della perfezione. Ulteriori tappe fondamentali dell’Odissea secondo Coppola, queste contestualizzano e al tempo stesso decontestualizzano ulteriormente la vicenda, rivelando da una parte una concezione coppoliana della guerra (in qualche modo storicizzandola: è effettivamente il Vietnam), dall’altra aumentano lo straniamento, l’astrattezza di un viaggio che si svolge al fondo dell’umano stesso. Così le conigliette diventano Sirene al contrario, apparenza scarnificata di una condizione umana, l’incontro tra le nebbie della famiglia francese assume il gusto di un dialogo onirico (anche se in ogni caso è la scena meno riuscita), il monologo/dialogo Kurtz-Times assurge ad un’elegia della realtà. È così che il cerchio quadra ulteriormente, facendo del film ben più che un semplice Director’s cut, quanto piuttosto il ritorno simbolico da quella Odissea che è anche una lenta e inesorabile discesa agli inferi. È Coppola il vero reduce di un film che, ben lungi da essere un film sul Vietnam, come lui stesso dichiarò a Cannes durante la conferenza stampa, è bensì il Vietnam stesso: e il reduce porta con se a distanza di decenni ciò che mancava, gli ultimi appunti di diario dell’Apocalisse, le ultime pagine brutalmente strappate e finalmente reinserite al loro posto.
Regia perfetta, estremamente coppoliana (immagini capovolte, rallentate, predominanza dei campi medio lunghi intervallati da straordinari primissimi piani, le dissolvenze mantenute fino al limite) coadiuvata da una delle più belle fotografie della storia del cinema e da un montaggio ineccepibile, intimamente einsensteiniano (si veda la scena finale nel montaggio d’attrazione tra Kurt e il bove, che cita direttamente il maestro russo), fino alla corrispondenza tra suono e immagine, strabiliante. Tutto ciò fa di Apocalypse now e della sua versione Redux un eterno e imperituro monumento dell’umanità e, quale monito scuro e monolitico, all’umano stesso.
Lorenzo Conte