Recensione di: Qualunquemente
Nato nel lontano 2003 prima sul palcoscenico teatrale e, successivamente, trasportato in un programma della Rai intitolato “Non c’è problema”, il personaggio di Cetto La Qualunque, imprenditore calabrese corrotto, debosciato e amante delle donne, interpretato dal comico Antonio Albanese, ha raggiunto un grande successo di pubblico grazie alla Galappa’s Band in “Mai dire domenica” e, negli ultimi anni, a Fabio Fazio nel programma “Che tempo che fa”. Questo fa capire che la scelta di farlo passare dal piccolo al grande schermo non è stata immediata e dettata dall’onda del successo. C’è stato un lunghissimo lavoro di sceneggiatura ad opera dello stesso Albanese e Pietro Guerrera, affinché il personaggio potesse incarnare alla perfezione la loro idea di maschera moderna della Commedia dell’Arte, dove i vizi e difetti sono messi a fuoco con lungimiranza, e dove il registro grottesco altro non è che l’espediente per far ridere e far ragionare. Il regista Giulio Manfredonia, distintosi per il precedente lavoro “Si può fare”, adotta una regia fluida e lineare, non incappando mai nella trappola dello sketch comico. Non sempre film di questo tipo fanno attenzione a questo dettaglio, infatti nel cinema, soprattutto ultimamente, la satira pungente ha ceduto il posto ad una comicità scontata e fine a se stessa. Quello che si appresta a diventare il nuovo sindaco di Marina di Sopra, fittizio paese (sfortunatamente solo per il nome!), nel quale abusi edilizi, a danno di importanti siti archeologici e corsi d’acqua, sono visti come il “progresso”, è la risposta comica a cliché legati al sud d’Italia. Questo però non deve fuorviare, perché è proprio il ridicolizzare fino all’esasperazione determinati luoghi comuni che ci consente di guardare il tutto attraverso una lente d’ingrandimento, votata ad un’analisi più approfondita degli aspetti della società odierna che più ci affliggono. La realtà rappresentata, dove corruzione, abusi e sconsiderato maschilismo, sotto “l’egida” di slogan elettorali quali “I have no dream, ma mi piace u pilu!”, sono forse una visione tanto irrealistica? La sovrabbondanza nelle abitazioni, dove kich è la parola chiave, il rigurgito di una lingua italiana che utilizza irragionevoli avverbi, sono solo alcuni degli aspetti di quell’universo nel quale vive Cetto, così “dantescamente” uguale e contrario al nostro.
Serena Guidoni