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Recensione di: Alice in Wonderland

Non è un remake del celebre cartoon Disney, né una nuova trasposizione del romanzo di Lewis Carrol, ma piuttosto una sorta di semi-seguito dell’originale letterario che vuole al tempo stesso riproporne i personaggi e rivisitarlo in una nuova chiave di lettura. L’obiettivo in sé non è disprezzabile, se consideriamo che le pellicole in live-action con l’ambizione di trasportare letteralmente Carrol sullo schermo si dimostrano in genere di una noia mortale (vedi quella britannica del 1972 o quella del 2001 per la tv). Purtroppo laddove le premesse (una protagonista, ormai cresciuta, che nel ritorno a Wonderland trova se stessa e definisce lo scopo della sua vita) lasciavano prospettare un prodotto interessante, il risultato complessivo finisce per deludere amaramente le aspettative. Bisogna infatti constatare che il film pecca proprio di uno dei difetti che rendevano indigeste le precedenti trasposizioni in carne ed ossa: l’eccessiva freddezza. Gli ottimi effetti speciali e le accuratissime scenografie sembrano sprecati, come sprecato (caso clamoroso in un film di Burton!) appare Johnny Depp nel ruolo di un triste e patetico Cappellaio Matto. La bravura dell’attore riesce anche qui a lasciare in qualche modo il segno, ma da sola non basta a salvare il contesto. Quanto al resto del cast, fra una Alice bellissima ma con la simpatia di un ghiacciolo e una Regina Bianca inquietante (con tanto di prudenti sottintesi saffici), si salva la scontrosa e malinconica solitudine della Regina Rossa di Anne Hathaway. In realtà la visione conferma semplicemente che quando un regista creativo e geniale incappa in un lavoro da realizzare su commissione, specie se si tratta della castrante committenza Disney, quel che quasi sempre ne esce fuori non è un’opera “libera” e neanche omologata alle imposizioni del committente, ma solo un ibrido né carne né pesce. La mano di Burton sembra impegnarsi a dirigere come lui sa fare, mentre la sua testa non pare convinta del progetto e non lo ama. Del resto se negli anni ’80 egli aveva lasciato la Disney, inorridito dai suoi melensi limiti espressivi, un nuovo venire a patti con la major di Topolino poteva solo essere una sofferenza dal punto di vista artistico. Un film “(visivamente) bello senz’anima”, troppo trattenuto e troppo poco adulto per dire ciò che vorrebbe, avvince poco e non convince. Ovviamente il 3D, frutto di un viraggio in postproduzione, è sostanzialmente inutile tranne in rarissimi momenti. Forse il testo di Carrol dovrebbe essere solo letto e interpretato e quindi, animazione per bambini a parte, nel cinema di intrattenimento è destinato a non rendere?

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