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Recensione di Amici Miei

L’unico, il solo, l’inimitabile, “Amici Miei” è datato 1975 ed è diretto dal maestro Mario Monicelli.
La storia, nota, è quella di un gruppo di cinque amici, Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli, molto poco inclini alla routine quotidiana, che amano spezzarla e condirla di verve comica, di situazioni ai limiti dell’assurdo, vivendo scanzonatamente in una continua burla. Le loro specialità sono le “zingarate”, ovvero prendere e partire, vedendo dove li porterà il viaggio, l’importante è che si stia insieme. L’atmosfera ricreata dal genio di Monicelli è quella adolescenziale che si prova con gli amici di una vita, quel legame sincero e scanzonato che ti fa vivere tutto con un sorriso, la pazzia del momento alimentata da chi ti siede accanto, molto meno divertente per il mal capitato di turno. Ciò che rende “Amici Miei” uno dei capolavori della filmografia italiana è il cast, la sceneggiatura, le ambientazioni, i dialoghi, ergere Firenze a culla della comicità sdrammatizzando sulla società italiana. Le battute e le gag comiche inscenate nella pellicola, sono entrate prepotentemente nell’immaginario collettivo delle persone, andandosi a collocare nel parlato di tutti i giorni, sostituendo termini e situazioni. Chiunque sogna di poter riuscire ad inscenare una “supercazzola” come il Conte Mascetti, ma ormai dire: “come se fosse antani” a qualcuno è troppo prevedibile! Eppure Mario c’è riuscito, con il primo e il secondo capitolo della saga, il terzo un po’ meno (ma gli si perdona), facendoci divertire, ridere della  società che ci ha circondato e che continua a girarci intorno, sorridere di noi, dei nostri problemi, mostrando a tutti com’è prendersi meno seriamente, donandoci l’illusorio coraggio di andare in una stazione e prendere simpaticamente a schiaffi le persone affacciate al treno in partenza. Non smetteremo mai di ringraziarlo, e per questo capolavori del genere non andrebbero mai profanati, nemmeno bonariamente. Semplicemente perché appartengono alla storia del cinema Italiano, perché sono un pezzo d’Italia, che ahimè non c’è più.

Sonia Serafini

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