Recensione di: Justin Bieber – Never say never
A quale santo bisogna votarsi per passare dalle performance di strada nella città di Stratford, Ontario (nazione che ha dato i natali ad altri cantanti di successo come Bryan Adams, Shania Twain ed Avril Lavigne), ad essere il “caso” internet con milioni di visualizzazioni su youtube? Quale senso di infinita predestinazione si possiede quando da questo trionfo si arriva a diventare una superstar mondiale realizzando il sogno di un clamoroso “sold out” al prestigioso Madison Square Garden di New York, che ha visto, tra gli altri, esibirsi mostri sacri del calibro di Bruce Springsteen, The Rolling Stones e U2. “Never say never” (Mai dire mai!) direbbe Justin Bieber, la cui ascesa nella discografia internazionale è un fenomeno da ricercarsi, prima di tutto, nella sua naturale predisposizione alla musica e al canto. Si perché, in effetti, è innegabile che il ragazzo sia nato con la camicia, aspetto riscontrabile dai numerosi video postati su internet (da una furbissima quanto lungimirante madre!) di lui ancora in fasce che sperimenta ritmicamente ogni oggetto che gli viene posto fra le mani. L’avvento delle “baby” star è un fenomeno cresciuto a dismisura negli ultimi anni, ed è, nello stesso tempo, un’operazione di marketing più che mai preoccupante. Ragazze al di sotto della soglia della “legalità” e bambine che giocano ancora con le bambole, sono il target di riferimento; è su di esse, e sulla loro capacità di votarsi al proprio idolo, che si vincono le “battle” a suon di copie di dischi vendute. Detto questo, il presente biopic, resoconto (insieme alle tappe fondamentali della seppur, fino ad ora, breve ma sfolgorante carriera di Bieber) degli ultimi dieci giorni del “My World Tour”, che hanno preceduto il concerto/evento nella Grande Mela, tra esercizi vocali, fans in delirio, cambi d’abito e prove sul palco (e d’acconciatura!), duetti con altre piccole star come Jaden Smith (figlio di Will) e Miley Cyrus, e laringiti che rischiano di rovinare il sogno, ha il limite di essere fin troppo prolisso nelle parti in cui abbiamo già ampiamente constatato che il piccolo Bieber sia un enfant prodige. Per non parlare della interminabile sequela di interviste a madre, amici e parenti, e allo stesso Scooter Braun (il talent scout che lo ha scoperto e presentato ad Usher), fin troppo melensi nel raccontare una carriera ancora tutta da scriversi. La regia, inizialmente affidata dalla Paramount Pictures a Davis Guggenheim (che, invece, ha deciso di dedicarsi “Waiting for Superman”), è stata messa nelle mani di Jon Chu, già regista del film Step Up 3D. Intrinseca nel genere a cavallo fra documentario e film/concerto in 3D per teenagers, la necessità di inserire parti commoventi che riconducano la figura di Justin a semplice adolescente, mimesi perfetta dei fans che lo seguono. Osservata da questo punto di vista l’operazione ha fatto quanto mai centro…
Serena Guidoni