Recensione di: Source Code
L’essere figlio d’arte può essere sia croce che delizia per un giovane che intenda intraprendere la stessa carriera di uno dei genitori. L’intuizione e la perspicacia sta, prima di tutto, nel non “copiare” disgustosamente le orme dei “vecchi” e, magari, cambiare persino il proprio nome, tanto da depistare, almeno inizialmente, sia pubblico che critica. E’ questo il caso di Duncan Jones, figlio di David Bowie (lo diremo qui, ma non lo ripeteremo più!), neo regista cinematografico dal talento autenticamente sbalorditivo, che con il precedente “Moon” (2009) ha saputo riportare in auge il genere fantascientifico (tra l’altro con un budget veramente ridotto, considerando lo standard di genere!), pulendolo dall’eccessività di action, che ha pesantemente accumulato negli ultimi anni. Con una somma a disposizione decisamente maggiore, Jones con “Source code” sonda un terreno noto ai più, quello delle realtà parallele e dei piani temporali sfalsati, ma lo fa prescindendo dalla scorciatoia/salvacondotto dell’action movie, capace solo, attraverso esplosioni, sparatorie ed inseguimenti, di fuorviare lo spettatore. Il Capitano Colter Stevens (interpretato da Jake Gyllenhaal) si risveglia all’improvviso nel vagone di un treno. Di pronte a lui c’è una giovane donna (Michelle Monaghan) che gli sorride, ma lui non ha idea di chi sia. In uno specchio vede il volto di un altro uomo e in tasca ha la carta d’identità di un tranquillo insegnante di scuola. Nel frattempo una donna in uniforme (Vera Farmiga) gli impartisce ordini da un monitor. A sua insaputa è impegnato in una missione militare, all’interno del programma Source Code, che gli permette di andare indietro nel tempo (esattamente agli ultimi 8 minuti di vita del passeggero sul treno) per scoprire il colpevole di un attentato che poche ore prima ha fatto migliaia di vittime. La più alta letteratura fantascientifica, da Philip K. Dick a Isaac Asimov, viene qui utilizzata come mentore per costruire una pellicola arricchita da disarmanti colpi di scena, dove la reiterazione degli avvenimenti è niente meno che la rilettura della società stessa, senza mai eccedere nella retorica e in giudizi moralistici sulle pratiche militari. Il film dosa abilmente momenti di suspance e riflessioni più interiorizzate, conducendo lo spettatore lungo un percorso mai noioso, in attesa della risoluzione finale…
Serena Guidoni