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Recensione di: L’uomo che non c’era

La spietata indagine dei fratelli Coen sulla provincia americana prosegue film dopo film, e la conclusione è sempre la stessa: è una società composta da esseri stupidi, irrazionali, ignari delle conseguenze delle proprie azioni, per i quali non c’è speranza di salvezza. In realtà i Coen, attraverso il “maestro di vita” Jeff Lebowski, la via per non farsi trascinare all’inferno l’avevano indicata: rimanere ai margini della società, sempre e comunque, in attesa che tutto passi. Evidentemente, il messaggio non è stato recepito da Ed Crane, barbiere nichilista e (ovviamente) un po’ tonto, che cerca invece di dare una scossa alla propria miserabile vita senza prospettive: un tentativo da cui prende il via una spirale di eventi incontrollati che porterà all’ineluttabile tragico finale.
Stile rigoroso ed essenziale, esaltazione della poetica della lentezza, splendido bianco e nero, Billy Bob Thornton mostruoso. E persino l’assurda sensazione che la Patetica di Beethoven abbia trovato ispirazione nell’Ed Crane dei Coen…

Mirko Medini

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