Recensione di: Mr. Beaver
Jodie Foster dietro la macchina da presa non la vedevamo dal 1995, anno di “A casa per le vacanze”. E, prima di allora, solo un altro film diretto (“Il mio piccolo genio”, del 1991). Una pausa lunghissima e una filmografia breve, in cui però già si delineano stilemi e tematiche ricorrenti: la difficoltà di tenere insieme una famiglia e di affrontare le tensioni quotidiane all’interno di essa, in primo luogo, ma anche il senso di solitudine e di disagio dei giovani. Peccato, però, che il tutto sia sempre intriso di un patetismo eccessivo e a volte insostenibile.
Al suo terzo lungometraggio Jodie Foster punta in alto, e con Mr. Beaver realizza sicuramente il film più ambizioso e coraggioso della sua carriera di regista; un coraggio dimostrato già nella scelta, per il ruolo di attore protagonista, di quel Mel Gibson recentemente al centro di numerosi scandali: dall’alcolismo agli insulti razzisti, passando persino per le violenze e le minacce di morte nei confronti della moglie Oksana Grogorieva. Ma un coraggio ben ripagato, perché proprio l’interpretazione di Mel Gibson rappresenta la nota più positiva del film. Se non, forse, l’unica.
Si badi bene, non tutto è da buttare, ed il film ha senza dubbio momenti coinvolgenti. Ma nel complesso appare poco riuscito il tentativo di dare vita ad una “commedia drammatica” in grado di far ridere e commuovere assieme attraverso quel sottile e difficile equilibrio che è prerogativa solo dei grandissimi (Chaplin, Lubitsch e pochi altri), e che non si raggiunge certo dall’oggi al domani. C’è poi da capire quali fossero le reali intenzioni della Foster, che nel buttare tanta carne al fuoco sembra perdere la rotta. Oltre a al protagonista Walter Black (Mel Gibson) che per sconfiggere la depressione parla con un castoro-pupazzo (assecondato, almeno in un primo momento, dalla moglie), assistiamo infatti alla storia tra il figlio di Black, Porter (Anton Yelchin) e la sua compagna di scuola Norah (interpretata da una sempre bravissima Jennifer Lawrence), la quale non è mai riuscita a superare il trauma della morte di suo fratello per overdose, e che esprime la sua sofferenza interiore attraverso la pittura. L’amalgama è poco convincente, così come le connessioni simboliche tra le varie sottotrame sembrano un po’ troppo tirate per i capelli.
Certo, il film riesce a tratti a far ridere (soprattutto nei momenti, spesso riuscitissimi, dei surreali dialoghi tra Mel Gibson e il castoro); ma quasi mai a commuovere, tanto meno in un finale ottimistico e riappacificatorio in cui si susseguono immagini al ralenty di Porter e Norah mano nella mano e della famiglia Black felice sulle giostre, accompagnate da musiche smielate e commenti fuoricampo. Così come vorrebbero essere drammatici ma risultano involontariamente ridicoli alcuni dei monologhi presenti nel film (su tutti quello tenuto da Norah nel giorno del diploma, sconcertante nella sua banalità).
Dunque, al suo terzo film come regista, la Foster, partita benino con “il mio piccolo genio”, non è ancora riuscita ad esprimere con coerenza la sua idea di cinema, né a trovare il giusto bilanciamento – alla Jane Campion, per intenderci – tra sensibilità femminile e rigore stilistico.
Una preoccupante involuzione che speriamo non essere irreversibile. Ma ho il timore che ci si ricorderà di Jodie Foster solo per essere stata una grandissima attrice.
Mirko Medini