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Recensione di: Lo spazio bianco

Aspettare, attesa, aspetto, sala d’aspetto…è come se si venisse catapultati nella dimensione di un limbo che dipinto di bianco ha le sembianze di uno spazio non nostro, in cui pazienza ed attesa sono una condizione, che per quanto soffocante, vale la pena di vivere. E’ questa la posta in gioco se alla fine di tutto c’è la vita. Francesca Comencini con il suo film “Lo spazio bianco” ci conduce attraverso il percorso che Maria (Margherita Buy), fa per veder nascere la sua bambina Irene, costretta ad affrontare due mesi in un’incubatrice, nell’attesa che nasca “nuovamente” o che muoia. Quella “vita” che con stupore ha generato, deve ancora aspettare… Il reparto neonatale di un ospedale ha in sé il significato dell’attesa; si traduce da luogo inequivocabile a un non luogo delle scelte, dove la risposta ha una scadenza precisa per essere data. Tratto dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella, edito da Enaudi, il film sopporta il peso di quella inequivocabile realtà/verità di donne che da sole sostengono l’affanno delle loro scelte, a discapito di una sicura posizione sociale che le vorrebbe prima mogli e poi madri. In tutto questo, c’è di mezzo la solitudine, a ricordarti quanto tu debba fare affidamento solo su ciò che conosci, e il non sapere cosa accadrà è l’ostacolo più ingombrante da superare. In quel limbo, nel quale all’interno di tante piccole “teche” c’è la speranza di una madre, il silenzio dello spazio bianco viene interrotto solo dal sibilare dei macchinari che tengono in vita chi vi “abita”. Quelli stessi macchinari che donano speranza, non sono allo stesso tempo “cura” per chi, attraverso un vetro aspetta di sapere. Parlano con un linguaggio che a noi non ci appartiene, perché il nostro è infinitamente più semplice e meno artificiale. La consapevolezza di passare dal potere al volere è una cosa che Maria impara insieme a sua figlia, nell’attesa…

Serena Guidoni

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