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Shame – Recensione

Con “Shame”, in concorso alla 68ª Mostra del Cinema di Venezia, il regista britannico Steve McQueen si conferma come uno dei più interessanti filmaker in circolazione. Alla sua seconda opera, dopo “Hunger” che nel 2008 si era immediatamente posto all’attenzione della critica internazionale fino ad conquistare la Camera d’Or il premio per il miglior esordio al Festival di Cannes e decine di altri premi in tutto il mondo, McQueen dà infatti prova di una grande capacità tecnica nel dirigere gli attori e di scelte registiche virtuosistiche e d’avanguardia. Al centro del film la vita del buisnessman newyorkese Brandon (Michael Fassbender), ossessionato dal sesso in tutte le sue manifestazioni. Il fascino carismatico di Fassbender e la sua straordinaria fisicità, messa continuamente a nudo, catalizzano l’occhio della macchina da presa. Il regista, infatti, non abbandona mai il suo protagonista, lo insegue con intensi primi piani e lunghi piani sequenza. Lo insegue e lo segue, lascia che sia lui a guidare l’azione filmica dove gli altri sono solo delle comparse. Il motore di tutto è infatti il profondo senso di vergogna che Brandon prova verso se stesso e la sua “malattia”, è questa vergogna che lo spinge a vivere situazioni sconsiderate e che gli impedisce di vivere  serenamente rapporti interpersonali, che lo porta, nel finale, a girovagare in una notte di lussuria senza fine nelle strade di Ney York. In “Shame”, che sembra dunque una lunga soggettiva del protagonista, il sesso è presente dall’inizio alla fine, attraverso nudi integrali dei protagonisti e scene di amplesso esplicite, il corpo, offerto nella sua violenta nudità allo sguardo dello spettatore, domina l’inquadratura. Del resto per Brandon il proprio corpo e le sue pulsioni sono causa di una continua ricerca di un sesso fine a se stesso e privo di qualsiasi tenerezza o coinvolgimento. Caratterizzano il film momenti di grande intensità sottolineati da una regia fatta prevalentemente di bellissime sequenze quasi prive di dialogo ma impreziosite da una colonna sonora classica, o ancora da lunghe sequenze a camera fissa, puntata direttamente sui volti dei suoi attori che, anche in questo caso, non possono nascondersi o tirarsi indietro in alcun modo, ma sono ancora una volta costretti a mettersi a nudo, senza vergogna. È dunque evidente la bravura e l’esperienza di McQueen, nonostante la giovane età, nel dirigere un film, a parer mio, fra i migliori in concorso e che ha sicuramente ottime possibilità di vincere.

Sara D’Agostino

 

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