Recensione di: Il Debito
Berlino est 1966. Tre giovani agenti del Mossad, Rachel, David e Stefan, vengono incaricati di catturare il criminale nazista Vogel noto come “il chirurgo di Birkenau” e di farlo giungere in Israele per il processo. Ma qualcosa va storto e Rachel, per impedirne la fuga, è costretta ad ucciderlo. Giustizia è fatta e per trent’anni i tre vengono celebrati come eroi, invitati a raccontare l’impresa in scuole e università. Tel Aviv 1997, la figlia di Rachel e Stefan, Sarah, presenta il libro di memorie che ha scritto sulla storia dei tre agenti dedicandolo a sua mamma presente in sala. Riavvolgendo i fili della memoria, Rachel inizia a ricordare i tragici eventi del passato, dal momento in cui aveva conosciuto David e Stefan, alla cattura di Vogel, ai giorni della prigionia, fino a una tragica notte di Capodanno. In realtà Vogel era riuscito a fuggire ma i tre avevano deciso che la verità di cui il loro popolo aveva bisogno era un’altra e per trent’anni avevano raccontato al mondo l’impresa di aver eliminato il criminale nazista. Ma ora, dopo che anni di bugie hanno portato David, il più sensibile dei tre, a una tragica fine, Stefan rivela a Rachel che Vogel si trova in un ospedale in Ucraina. Tocca a lei stanarlo e chiudere definitivamente i conti con trent’anni di menzogne saldando il debito con la propria coscienza.
Un popolo e le sue cicatrici, un dramma collettivo rivissuto in una vicenda dai toni che spaziano dal thriller al dramma di coscienza. John Madden (il regista del celebratissimo Shakespeare in Love) firma questo remake del film israeliano del 2007 Ha-Hov diretto da Hassaf Bernsein.
Ragione di stato e ragioni del cuore, peccato, colpa, redenzione, il valore assoluto della verità, sono i temi centrali della vicenda. Ma una sceneggiatura non perfettamente congegnata (firmata da Matthew Vaughn, Jane Goldman e Peter Straughan), troppo ansiosa di spingere sul pedale del thriller, si perde tra le linee di una vicenda ricostruita attraverso lunghi flashback (che trascinano lo spettatore da una Berlino della guerra fredda vista soprattutto dall’interno del claustrofobico e fatiscente appartamento–covo dei tre agenti, a una luminosa Tel Aviv alla fine degli anni Novanta). Il sofferto percorso del cuore di Rachel è al centro della narrazione, divisa tra l’amore per David e la relazione con Stefan. Sofferenze del cuore e dell’anima vanno di pari passo con quelle vissute sul corpo. La cicatrice sul suo volto, a distanza di trent’anni, ne è il simbolo evidente come sono ben chiare le ferite interiori di una vita fatta di scelte sbagliate (un matrimonio infelice, il grande amore soffocato troppo a lungo). Madden, regista di un cinema di attori, non si smentisce neanche questa volta, affidando il compito di raccontare la vicenda alla classe dei suoi interpreti. Una menzione a parte merita Helen Mirren (la Rachel matura) la cui interpretazione supera di una spanna quella dei suoi colleghi. Buone le prove di Jessica Chastain (Rachel giovane) e di Tom Wilkinson (il maturo Stephan), mentre Sam Worthington (il giovane David), il muscoloso Perseo del kolossal Scontro tra titani divenuto star grazie all’Avatar cameroniano, svetta sul piano della presenza scenica ma meno su quello dell’intensità emotiva.
Pur rischiando di impantanarsi in un finale non perfettamente convincente, Madden ne esce bene riscattandosi con un incipit interessante. Quel “falso flashback” rivissuto dalla protagonista, procedimento che mette in discussione la sincerità contenuta quasi implicitamente nella forma visiva del ricordo fornendo allo spettatore resoconti perfettamente falsi, è una piccola chicca che i palati più fini non mancheranno di apprezzare. Un procedimento spiazzante ed efficace, se pensiamo, un caso su tutti, all’uso che ne fece Bryan Singer ne I soliti sospetti. Nell’economia del racconto di The Debt il “flashback menzognero” acquista uno spessore particolare, quasi un valore etico, se pensiamo alla riflessione sul valore della verità, tema centrale del film. L’ostentazione del falso ricordo si dimostra ancora una volta compatibile con le esigenze ideologiche ed espressive di un autore. Così ha fatto Madden con l’invenzione del passato che diventa vera “arma di sopravvivenza”. Non male davvero.
Elena Bartoni