La pelle che abito – Recensione
Al centro del nuovo film di Pedro Almodòvar c’è il tema della vendetta. Ne “La pelle che abito” Vera (Elena Anaya) è infatti costretta con la violenza a compiere un viaggio senza ritorno, viene sottoposta ad un processo irreversibile contro la sua volontà a causa di una forma di vendetta estrema. La donna si trova, kafkianamente potremmo dire, in una pelle che le è stata letteralmente “cucita” addosso dal dottor Ledgard (Antonio Banderas) che, per vendicarsi di un torto subito nel passato, le ha scolpito sul suo il volto della moglie morta. Ledgard sa bene quanto sia importante la pelle per donare al volto e al corpo umanità e per lui è come la tela di un pitture su cui poter lavorare per portare avanti il proprio sogno. Ed il suo sogno è quello appunto di creare una pelle transgenica che permetta di poter riparare lesioni causate da gravi ustioni, le stesse che hanno causato la morte della moglie. La nuova pelle da lui brevettata, chiamata Gal dal nome di sua moglie, ha però bisogno di una cavia umana per essere sperimentata ed uno stupro inesistente, quello di sua figlia Norma, gli offre inaspettatamente questa possibilità. Come in “Vertigo” di Alfred Hitchcock anche ne “La pelle che abito” viene ricreato, doppiato chi si è amato. Vera dal canto suo è solo costretta a vivere questa doppiezza, è condannata a vivere nella pelle che abita e che non è la sua, il che comporta un’inevitabile e progressiva perdita di identità. La sua prigionia è doppia: è infatti prigioniera in un luogo, la meravigliosa villa di Ledgard El Cigarral, e prigioniera di una pelle che le è estranea. Nonostante sia caratterizzato da una grande vulnerabilità, ciò che meglio connota il personaggio di Vera è la voglia di sopravvivere ed è proprio questo che la spinge ad accettare la sua seconda pelle e ad aspettare, anche anni, per vendicarsi a sua volta del suo nemico e riprendere in mano la propria vita. Dopo il metacinematografico “Gli abbracci spezzati” anche ne “La pelle che abito” Almodòvar fa continui riferimenti al cinema, come risulta evidente dalla presenza di schermi all’interno del film che riprendono la realtà ma che spesso la alterano: l’immagine di Vera nello schermo è infatti troppo piccola per enfatizzarne la fragilità, o troppo grande ed invasiva come è il suo aspetto nella vita di Ledgard. Per questa storia, in cui riecheggiano numerose citazioni cinematografiche (abbiamo già parlato dell’analogia con Hitchcock per il tema del doppio, potremmo poi nominare Luis Bunuel o ancora il gotico Fritz Lang), il regista sceglie una narrazione austera, priva di retorica visiva e niente affatto splatter, caratterizzata da una fotografia, quella di Josè Luis Alcaine, densa e brillante e cupa allo stesso tempo. Come ci ha da tempo abituati nella sua varia filmografia, il regista castigliano ci offre ancora una volta una pellicola memorabile, un dramma enigmatico e sconvolgente.
Sara D’Agostino