Recensione di: Hotel Lux
Nella Berlino nazista del 1938, il comico Hans Zeisig (interpretato da Michael Bully Herbig) intrattiene il pubblico tedesco con il suo spettacolo dal titolo “ Stalin-Hitler-show” nel quale, insieme all’amico ebreo Siegfried Meyer (Jürgen Vogel), l’uno interpreta il dittatore russo, e l’altro il Fuhrer. L’atmosfera politica, però, sta decisamente cambiando e i due cabarettisti sono costretti a fuggire a Mosca, trovando asilo nel famigerato Hotel Lux. Iniziano così una serie di esilaranti vicende in questo leggendario paradiso perduto del Comintern, fra spie e delatori, vere personalità comuniste, fanatici e impostori, ed Hans, grazie ad un errore dei servizi segreti, interpreta il ruolo della sua vita: l’astrologo personale di Stalin. Forte dell’appoggio del dittatore e travolto dagli eventi, spera così di mantenere il suo stile di vita bohémien. Ma presto realizza di essere passato dalla padella alla brace: microfoni nascosti registrano ogni sua parola, e Stalin stesso comincia a recitare una pericolosa commedia. Il regista tedesco Leander Haussmann, proveniente da una copiosa gavetta nel teatro, ha debuttato nel cinema con Sun Alley nel 1999 e con Hotel Lux, presentato in Concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, ci regala una divertentissima, quanto intelligente, commedia che si prende gioco, senza reticenze, delle dittature e delle loro, spesso, grottesche e bizzarre ideologie. Attraverso le vicende di due attori, della loro lotta per la sopravvivenza artistica e non solo, siamo trascinati in un crescendo di risate che disarmano nel momento in cui facciamo i conti con l’ineluttabile scoperta del dramma. Spesso nella storia del cinema si è giocato sulla messa in ridicolo dei regimi totalitari, e in particolare di quello nazista, celebre è l’esempio di “Vogliamo vivere” di Ernst Lubitsch che nel 1942 rideva e faceva ridere il pubblico mondiale a discapito del Fuhrer. Forse sta proprio nel momento storico in cui viene proposto un film del genere il suo tallone d’Achille. Infatti, pur rimanendo dell’idea che la pellicola diverte, nel senso più puro del termine, siamo costretti a penalizzarlo per una mancanza di originalità.
Serena Guidoni