I primi della lista – Recensione (2)
Una storia vera, una storia buffa, accaduta all’inizio del mese di giugno del 1970 quando tre giovani pisani chiesero asilo politico all’Austria. Ma andiamo per ordine. Questa la vicenda.
Dopo le manifestazioni degli studenti e gli scioperi, l’Italia vive un clima di sospensione: da un lato sono ancora vive le ingenuità e i sogni del ‘68, dall’altro il pericolo di una lotta interna è destinato a scaldare sempre di più il clima nel paese. Siamo a Pisa, è il 1 giugno 1970. Renzo Lulli è un liceale di buona famiglia che fa parte del movimento studentesco pisano e ama suonare. Tramite il suo amico Fabio Gismondi, riesce a ottenere un provino con il “mitico” Pino Masi, cantautore che ha fondato da poco il Canzoniere Pisano e fa concerti davanti a migliaia di ragazzi. Mentre sta provando a casa del Masi, arriva la notizia che in Italia sta per scattare un colpo di stato come quello dei colonnelli in Grecia nel ’67. Masi spiega che occorre scappare fuori dall’Italia e chiedere asilo politico perché gli intellettuali, soprattutto i ragazzi, saranno i primi a essere prelevati (“non è che si mettono a farci la biografia, ci ammazzano tutti e via!”). Masi convince Lulli a prendere la sua macchina per fuggire: il ragazzo telefona ai genitori e inventa delle scuse dicendo che non tornerà a casa quella sera. I tre partono verso il confine yugoslavo. Nella notte si fermano a fare benzina e, mentre sono fermi a bere un caffè, il bar si riempie di soldati che stanno andando a Roma. Non pensando che l’indomani è il 2 giugno e che ci sarà la parata militare nella capitale, i tre si convincono che il colpo di stato è cosa certa. La A112 ora corre verso il confine e la salvezza.
Un’Italia lontana, o meglio, lontanissima. L’Italia dei movimenti studenteschi, dei collettivi politici, dei cantautori impegnati con la chitarra al collo, ma anche dei telefoni a gettone, delle mamme casalinghe e iperprotettive, delle Autobianchi modello A112 (sul cui acceleratore “pigiare-pigiare-pigiare”), quella Italia non c’è più ed è come una cartolina scolorita dal tempo. Ma è davvero così?
Di leitmotiv il film ne ha due e vanno in direzioni opposte: la paura e la comicità. Questo doppio binario ha guidato il regista influenzandone le scelte più originali, in primo luogo la colonna sonora. Con intelligenza si è evitato di proporre un miscuglio di brani anni ’60 e ’70 e, per non cadere in una rappresentazione scontata e didascalica, si è fatto un lavoro di ricerca più approfondito. Oltre alle due canzoni di lotta che gli attori cantano in scena, si è deciso (con scelta felice) di puntare su una scherzosa marcia di Radetzky, che rappresentava bene le due anime del film facendo sposare un ritmo incalzante (la paura del golpe) con toni buffi (la comicità di quella fuga così assurda).
Merito del regista anglo-materano Roan Johnson, al suo esordio in un lungometraggio dopo aver diretto nel 2006 l’episodio “Il terzo portiere” del film 4-4-2 Il gioco più bello del mondo prodotto da Paolo Virzì, è di aver reso la storia in tutta la sua ambiguità. La commedia nasce infatti da quel diffuso senso di paura che effettivamente serpeggiava in Italia. I nostri eroi si convincono (forse troppo) di un destino amaro per sé stessi e per il loro paese ma vengono mostrati sempre con grande ironia. Azzeccata è la scelta del tris di protagonisti che fa perno sulla “star” Claudio Santamaria la cui caratterizzazione di Pino Masi (cantautore noto per il suo impegno politico autore di famosi canti di lotta del ’68 e degli anni successivi il più celebre dei quali è “La ballata del Pinelli”) ben si amalgama con i due giovani esordienti sul grande schermo Francesco Turbanti e Paolo Cioni.
Commedia dal sapore particolare tratta da un soggetto scritto da Renzo Lulli e condita da toni picareschi, grotteschi e surreali, il film si chiude significativamente sulle note di “Quello che non ho” di Fabrizio De André, brano che raccontava la fine di un’epoca interpretato dai tre “grulli” protagonisti e dal vero Pino Masi. E lo sguardo (incantato) del film da ieri si sposta (disincantato) sull’oggi, uno sguardo che, per ammissione del regista, contiene “in nuce” molti elementi che accomunano i giovani dei primi anni Settanta con quelli del terzo millennio, primi fra tutti la fuga, le illusioni e le paure. Queste ultime oggi, forse, ancor più grandi di ieri.
Elena Bartoni