Mission: Impossible – Protocollo fantasma – Recensione
La missione impossibile di Brad Bird era risollevare le sorti di un franchise che con l’ultimo capitolo aveva perso parecchio appeal nei confronti del grande pubblico; diretto da J.J: Abrams, Mission Impossibile III aveva infatti incassato appena 398 milioni di dollari, il 30 % in meno rispetto alle stime, provocando, insieme a discutibili uscite pubbliche, la fine di un sodalizio, quello tra Paramount e Tom Cruise, che durava ormai da quattordici anni.
La missione impossibile di Tom era invece riprendersi, dopo tante voci, il posto di protagonista in una saga che lui stesso aveva plasmato, risollevando le sorti di una carriera le cui ultime interpretazioni (“Operazione Valchiria” e “Innocenti Bugie”) non erano certo state memorabili.
Con compiti così impegnativi un risultato positivo non era poi davvero così scontato, se il regista premio Oscar (“Ratatouille” e “Gli Incredibili”) finisce col confezionare un bel blockbuster vecchio stile, tutto ritmo forsennato e immagini d’impatto, che dopo circa un mese e mezzo dall’uscita nelle sale americane incassa 540 milioni di dollari, da parte sua, Cruise, fa pace con la Paramount e si riprende il posto di attore e produttore, insieme alla Bad Robot di J.J. Abrams, finendo, altro compito arduo, col risultar credibile nel suo ruolo alla soglia dei cinquant’anni.
La missione sulla cui fattibilità nessuno avrebbe dubitato e quindi stavolta sì possibile per Ethan Hunt è quella di salvare il mondo dall’ennesimo conflitto nucleare, idea retrò e per nulla originale del criminale con manie da ripulisti generale interpretato da Michael Nyqvist. Le cose si complicano perché l’intera Impossible Mission Force è stata sconfessata dal governo degli Stati Uniti dopo l’esplosione di un’ ala del Cremlino durante il recupero di un file custodito nei suoi archivi.
Privi di mezzi, risorse e sostegno, la squadra di fuggitivi capitanata da Ethan, passato da lupo solitario a team leader, se la vedrà dura viaggiando intorno al mondo alla ricerca dei codici in grado di attivare le testate nucleari. Nell’impresa affiancano Cruise il talento tutto fisico e comico di Simon Pegg, promosso agente operativo, la sensualità, per la verità un po’ legnosa di Paula Patton e quel Jeremy Renner, che qualcuno aveva individuato come sostituto dello stesso Tom per il quarto episodio della serie.
Ad uscirne rafforzata è l’immagine del protagonista, più autoironico, meno super-uomo, quasi realistico nelle sue evoluzioni da eterno ragazzo; questa volta Cruise ce la mette davvero tutta, continuamente in tensione, barba ispida, ferocemente concentrato, sorriso piacione e felpa da pischello te lo vedi uscire dal Cremlino con un giubbotto da Top Gun e la maglietta di Springsteen e ti viene da pensare che anche con qualche ruga all’orizzonte forse è proprio vero che non invecchia mai.
Se il film riesce il merito è in fondo davvero suo, della spettacolarità di certe immagini e di quel ritmo inarrestabile e dinamico che, ben costruito, costringe il pubblico a rifiatare nella sola conclusione, con un finale a dire il vero un po’ sdolcinato e zuccheroso. Una sceneggiatura (J. Appelbaum, A. Nemec, e B. Geller) leggerina fa sì che il film viva in fin dei conti di situazioni, sul presente, impedendo al pubblico riflessioni e sentimenti, così che l’azione compensi ciò che manchi in anima. Lo stesso antagonista, oppure la compagna più fedele, fate voi visto che alla fine tutto gli riesce, è a ben vedere la fretta, e non certo quell’Hendriks (M. Nyqvist) di cui sappiamo davvero poco. Ethan Hunt scala grattacieli, evade da un carcere, scappa da un ospedale e da una tempesta di sabbia, inciampa, cade e si rialza ma lo fa sempre coi minuti contati, col tempo che stringe, con l’angoscia che attanaglia lui e di rimbalzo lo spettatore, costretto a provar questo come unico stato perenne.
Daniele Finocchi