Recensione di: Hugo Cabret
Fresco di Golden Globe come Miglior Regista, Martin Scorsese con il suo ultimo lavoro Hugo Cabret (basato sul romanzo dello scrittore statunitense Brian Selznick La straordinaria invenzione di Hugo Cabret), naviga a vele spiegate verso i prossimi Premi Oscar, con ben 11 nomination tra cui Miglior film e Miglior regia. Hugo è un ragazzo orfano, che vive “non visto” all’interno della stazione ferroviaria di Parigi agli inizi degli anni Trenta. Ereditato, dal padre orologiaio, uno straordinario talento nel riparare qualsiasi tipo di ingranaggio, il ragazzino decide di aggiustare un automa rotto, all’interno del quale è convinto vi sia un importante messaggio lasciatogli dal genitore prematuramente defunto. Con l’aiuto di Isabelle, una stravagante ragazza, Hugo verrà a conoscenza di un importante segreto che si cela dietro l’enigmatica figura del patrigno di lei, Papà Georges, pioniere (dimenticato?) del cinematografo. Nel film convivono due anime preponderanti: una votata alla celebrazione del Cinema, nel suo momento, forse, più innovativo e divertente, e una, più intima, che narra di solitudini, profondamente diverse, ma terribilmente speculari. Nel primo caso la Settima Arte è evocata con nostalgia da un maestro come Scorsese che, nella ricostruzione fedelissima del Cinema delle Origini (quello di un Georges Méliès lungimirante e sagace!), trascina lo spettatore in un universo fatto di fervida e prolifica immaginazione, dove la sperimentazione del nuovo mezzo andava di pari passo con una crescita intellettuale collettiva. Nel secondo caso, invece, ci viene proposta una carrellata di curiosissimi personaggi che affollano la stazione (Sacha Baron Cohen, il Capostazione e Christopher Lee, il proprietario di una libraria, per citarne solo alcuni) e che, direttamente o indirettamente, fanno parte della vita del piccolo protagonista; ognuno con la propria storia, il proprio racconto, il proprio rammarico e malinconia. L’omaggio appassionato che Scorsese fa al cinema è straordinario, e come già fece Ingmar Bergman nella sua biografia La Lanterna Magica, anche qui è lo stupore dell’infanzia a costituire il veicolo per una riflessione più adulta. Quest’ultimo aspetto funziona sino alla fine ed il film risulta un godimento visivo sia per i cinefili che per i neofiti. E’, invece, nel plot puro e semplice, in questa storia alla Oliver Twist (decisamente più edulcorata!) che il film perde di intensità emotiva. Scorsese non mette la stessa vivacità nel racconto dei personaggi come fa invece nella descrizione della Storia del Cinema. Messo a confronto con il cinema per ragazzi il regista perde tutta la “sincerità” del suo cinema, e il 3D diventa più un elemento di disturbo alla scorrevolezza del racconto che uno strumento di fascinazione.
Serena Guidoni