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Cesare deve Morire – Recensione

Orso d’Oro alla sessantaduesima edizione del Festival di Berlino “Cesare Deve Morire” dei fratelli Taviani è un film duro e toccante allo stesso tempo. Ne sono protagonisti i detenuti del carcere di Rebibbia che si trasformano in interpreti shakespeariani per mettere in scena, guidati dal regista Fabio Cavalli, il “Giulio Cesare” di Shakespeare.
Cesare Deve Morire inizia e termina a colori, gli applausi del pubblico salutano gli attori che hanno appena il tempo di far festa e godersi quel tripudio; scortati dalle guardie carcerarie tornano presto nel buio delle proprie celle con la testa bassa e un silenzio che stordisce.
Comincia ora il film dei Taviani, in bianco e nero, a testimoniare un salto indietro di sei mesi e a scongiurare un realismo televisivo sempre dietro la porta quando di mezzo ci sono le sbarre di un carcere. Non provate a chiamarlo un documentario, tanto meno docu-fiction, termine terribile che difatti ai fratelli Taviani proprio non piace.
Cominciano i provini, si distribuiscono le parti e iniziano le prove. Di mezzo ci sono i grandi rapporti che legano e dividono gli uomini, amicizia, tradimento, potere, e libertà. Ognuno recita col proprio dialetto d’origine, la deformazione dialettale delle battute non finisce mai per immiserire il tono della tragedia, gli regala anzi una verità nuova, un forza poetica e drammatica che non ti aspetti; gli attori-detenuti entrano in confidenza con i personaggi attraverso una lingua che gli è comune, mai volgari o sboccati si affidano allo svolgersi del dramma guidati dal regista Cavalli che ora smette i suoi panni e come loro si fa attore. Persino quel mirabile esempio di retorica che è il discorso di Marcantonio davanti alla folla che acclama Bruto col pugnale ancora insanguinato assume una nuova forza nel napoletano di Antonio Frasca, perché quegli “uomini d’onore” a cui di più volte si richiama nel suo atto di accusa gli sono davvero davanti.
Ne sarebbe potuta uscire un’opera scontata, eppure i Taviani evitano con maestria un troppo facile processo di identificazione tra attori e personaggi, il teatro che illumina l’oscurità delle celle, che fa rivivere sentimenti potenti e mai sopiti, che si trasforma in tentativo d’evasione, non riesce tuttavia a cancellare le colpe e il carcere. Le condanne non vengono nascoste, il teatro, l’arte, diventa prova di rivalsa e ricorda a quei carcerati che c’è un altro modo d’esser uomini, è un “avvertimento”, così l’han definito gli stessi attori, per chi sta fuori e ora segue gli sbagli che essi hanno commesso in passato.

Daniele Finocchi

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