Recensione di: Posti in piedi in paradiso
La crisi economica, collettiva; lo sgretolamento sociale e di conseguenza della famiglia è un tema, forse, non del tutto nuovo, ma terribilmente attuale. La commedia è il genere cinematografico, e non, che più di altri è in grado di “vedere” la realtà con oggettività mai edulcorata, dove la risata è lo strumento che diverte e, un istante dopo, fa riflettere. Questo il pensiero pirandelliano sull’umorismo e a modo suo Verdone, in trent’anni di carriera, ha saputo (benché non sempre con la stessa intensità) costruire storie e ritratti di personaggi talmente reali da potersi rivolgere ad un pubblico molto vasto. Questa di Posti in piedi in paradiso è una commedia nella quale la risata fragorosa lascia spazio ad un, più contenuto, risolino di rammarico e rassegnazione. I nuovi poveri, come li ha definiti lo stesso Verdone, sono rappresentati da Ulisse, Domenico e Fulvio, interpretati dallo stesso regista e da Pierfrancesco Favino e Marco Giallini. Seppur con le loro disarmanti diversità i tre rappresentano uno spaccato dell’Italia contemporanea: quello dei padri separati. Ulisse è un ex discografico, che vive di ricordi nel suo minuscolo negozio di cimeli musicali; Domenico è un agente immobiliare che vive di espedienti (come fare “l’accompagnatore” per le donne di una certa età) e Fulvio è un ex critico cinematografico costretto, per campare, a scrivere di gossip. I tre hanno in comune separazioni e figli a carico e decidono di dividere l’affitto di un poco confortevole appartamento. Ma la convivenza, come si sa, è una questione di compromessi. In tutto questo le donne, chi sono? Se inizialmente le rispettive mogli sono le acerrime nemiche, l’inaspettato arrivo di Gloria, una cardiologa parecchio svampita ma terribilmente dolce e premurosa, sarà la spinta, soprattutto per Ulisse, per riprendere in mano la propria vita. Il film, ricco di interessanti quanto inediti punti sui quali riflettere, dove la comicità non è mai fine a se stessa e si giova di un Marco Giallini superbo nel ritrarre lo stereotipo del cialtrone moderno, soffre un po’ dell’eccesiva durata (119 minuti), che dilata oltremisura alcuni momenti.
Serena Guidoni