Recensione di: La sorgente dell’amore
Radu Mihaileanu regista, fra gli altri, di film straordinari apprezzati compatibilmente da critica e pubblico, come Train de vie – Un treno per vivere (1998) e Il concerto (2009), nei quali il registro tragi-comico è una cifra stilistica perfettamente riconoscibile, ne La sorgente dell’amore cambia quasi radicalmente fronte narrativo. Ispirato ad una vicenda realmente accaduta in Turchia, il film viene trasportato in un imprecisato villaggio al confine tra il Nordafrica e il Medioriente, nel quale le donne indicono uno sciopero dell’amore (e del sesso) per costringere gli uomini a occuparsi, al posto loro, della raccolta dell’acqua nella sorgente situata su di una impervia montagna. Queste donne, vessate da una tradizione islamica che impone dettami rigidissimi di comportamento, privano prima di tutto se stesse di quella intimità che vorrebbero condividere con i loro mariti, in nome di una rivendicazione della propria identità. Mihaileanu entra in punta di piedi nelle dinamiche legate all’applicazione “alla lettera” delle leggi coraniche, e lo fa dipingendo una microsocietà serrata dentro ataviche convinzioni, lasciando però un margine di comprensione per una cultura così diversa da quella occidentale. Vittima della repressione del dittatore rumeno Nicolae Ceau57;escu, il regista ha sempre utilizzato l’ironia e l’umorismo per raccontare vicende drammatiche, storiche e non, antidoto a quello stesso svilimento dispotico. In questa storia, ambientata in una esotica e “remota” realtà, il regista preferisce dei toni più contenuti, valorizzando i personaggi femminili, come quello della protagonista Leila (Leila Bekhti) che, provenendo da un villaggio “straniero”, è la fautrice di questa pacifica rivolta, potendo contare, almeno inizialmente, sul supporto di suo marito. La sua lotta coinvolge molte altre donne (fra le quale c’è una “rivoluzionaria” Vecchia Lupa, interpretata da una straordinaria Biyouna), oppresse dietro quell’obbligo/dovere di essere fabbricanti di prole e schiave nella loro stessa casa. Esse reclamano la loro indipendenza, che si declina nella condivisione insieme al proprio compagno e non nell’annullamento di uno dei due. In concorso al 64° Festival di Cannes, il film si avvale di una straordinaria colonna sonora, fatta di canti appartenenti alla tradizione berbera, nella quale la musica, come il canto, sono il canale con il quale interloquire, spiegare e trovare conforto.
Serena Guidoni