Il mio migliore Incubo – Recensione
Gli opposti si attraggono? Affermazione vecchia quanto il mondo ma forse vera, almeno stando all’ultima commedia di Anne Fontaine. C’era una volta “la strana coppia”, ancora una volta sul grande schermo ma questa volta ‘made in France’.
I due opposti in questione non potrebbero essere più diversi. Lei, Agathe (Isabelle Huppert) dirige un’importante galleria d’arte contemporanea, vive con il figlio e il marito editore François (André Dussollier) in un appartamento prestigioso di fronte ai Giardini del Lussemburgo. Lui, Patrick (Benoît Poelvoorde), sbarca il lunario con lavoretti saltuari e con i sussidi dell’assistenza sociale e vive con suo figlio nel retro di un furgone. Lei ha rapporti stretti con il Ministero della Cultura e delle Arti, lui ha legami stretti con le bevande alcooliche. A lei piace il dibattito intellettuale, a lui piace il sesso occasionale con donne dalle grandi forme. Entrano in contatto diretto perché i loro figli diventano amici inseparabili. E così dopo che suo figlio Tony si è praticamente stabilito nella bella casa dell’amico Adrien, figlio di Agathe, anche Patrick si installa nell’appartamento dopo che François lo assume per costruire una nuova cabina armadio per la moglie. E’ l’inizio di un incontro-scontro dagli esiti sorprendenti.
Era ora che questa deliziosa commedia presentata all’ultimo festival di Roma lo scorso ottobre (titolo originale Mon pire cauchemar) uscisse finalmente nelle sale!
Il punto di partenza è noto. Il cinema francese infatti gioca ancora una volta con quello che ormai può essere considerato un topos ricorrente e cioè la coppia di opposti costretti a vivere a stretto contatto (basta guardare i più grandi successi del cinema d’Oltralpe da La cena dei cretini a Giù al Nord fino al recente exploit di Quasi amici per avere chiaro il quadro). E vince di nuovo.
Questa volta la dirompente comicità, irriverente e tratti provocatoria, di Benoît Poelvoorde, venuta fuori lo scorso anno nel divertente Niente da dichiarare? accanto a Dany Boon (quello di Giù al Nord), si incontra e si incastra alla perfezione con la classe algida di Isabelle Huppert, chiamata a fare un po’ il verso a sé stessa (o comunque all’immagine che viene fuori dalle sue interpretazioni più famose) con il ruolo di una snob, rigida (e anche un po’ odiosa) gallerista d’arte. Ed ecco che tante barriere, false quanto inutili, cadono con la giusta dose di sottile ironia. Ne viene fuori una lotta di classe frizzante, dal ritmo sostenuto, un po’ sboccata, un po’ sexy. E così le martellate con cui Patrick abbatte una parete della casa di Agathe fino a entrarle, per sbaglio, in bagno, sono i colpi simbolici con cui l’operaio fallito e ubriacone abbatte la cortina di ferro della ricca intellettuale borghese fredda e infelice. Ed è romanticismo, sui generis magari, ma pur sempre romanticismo. Magari un po’ irreale, o forse no.
E così Anne Fontaine, che aveva già diretto Benoît Poelvoorde in Entre ses mains e Coco avant Chanel, oltre a divertire, azzarda anche un filino di critica al perbenismo borghese con particolare riferimento alle èlite intellettuali spesso vacue e autocompiaciute del mondo dell’arte e dell’editoria. E i cliché con cui vengono dipinti i personaggi all’inizio del film, man mano vengono messi in discussione. Come ha sottolineato la protagonista Huppert, il film finisce per riconciliare il mondo dell’intelletto e quello dei sensi, un’opposizione che in fondo è, essa stessa, un cliché.
Divertimento intelligente e piacevole, tutto sommato privo di volgarità (a parte qualche uscita eccessiva del volgarotto operaio), alcune battute particolarmente felici, interpreti indovinatissimi (con altri due l’esito non sarebbe stato lo stesso).
E poi dite la verità, avreste mai immaginato di vedere Madame Isabelle Huppert ubriaca che si rotola nel pavimento di casa o intenta ad accennare a una lap-dance in un night di periferia?
Elena Bartoni