Recensione di: Romanzo di una strage
La memoria storica del nostro Paese è una concezione labile, la cui sopravvivenza è sempre stata messa a dura prova. Marco Tullio Giordana, che con il suo lavoro ha spesso riportato in auge il grande cinema d’inchiesta di Rosi e Petri, con Romanzo di una strage raggiunge un obiettivo fondamentale: quello di restituire, per quanto possibile, una dignitosa verità che manca alle vittime della strage di Piazza Fontana, e regalare alle nuove generazioni una maggiore consapevolezza del nostro passato. Pulito da fronzoli e digressioni inutili, il film compie la sua parabola con calcolata rigorosità, allontanando il più possibile lo spauracchio di una eccessiva spettacolarità che avrebbe tolto al racconto linearità. Era il 12 dicembre del 1969 quando nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano esplode un ordigno (due come rivela una tesi meno nota dello scrittore Paolo Cucchiarelli, ma avvallata nel film), che uccide 17 persone e ne ferisce 88. Una tragedia nazionale che innesca un meccanismo smisurato di violenze e ritorsioni che vedranno il loro apice nel terrorismo degli anni Settanta. A “contendersi”, negli anni a venire, la rivendicazione di questo brutale assassinio, i due schieramenti “politici” opposti: da un lato i neofascisti dell’area veneta appartenenti ad Ordine Nuovo, dall’altro gli anarchici rossi capeggiati da Pietro Valpreda. Anni di indagini, bugie e smentite non hanno consegnato alla giustizia i reali colpevoli, lasciandoli tutt’ora impuniti. Lo stesso Giordana ha ammesso che un film su questa vicenda non si sarebbe potuto fare prima, in primo luogo per la mancanza di una reale “verità” sui fatti e conseguentemente per i pregiudizi, tutt’ora esistenti, sulle responsabilità di ognuno degli astanti. Diviso in capitoli, il film ci guida verso la narrazione della vicenda costituendo in due personaggi il suo nucleo fondamentale. Il buono e il cattivo, tipizzazioni formali delle quali entrambi non saranno mai i reali detentori, sono l’anarchico Giuseppe Pinelli (interpretato da Pierfrancesco Favino), morto cadendo dalla finestra della questura, in circostanze mai chiarite, durante l’interrogatorio che lo accusava di aver organizzato la strage, e il commissario Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea), ucciso sotto casa sua nel 1972 (nello stesso anno veniva ucciso l’editore Giangiacomo Feltrinelli e Calabresi scopriva la presenza di un arsenale a disposizione dei gruppi di estrema destra e servizi segreti italiani nel caso si fosse verificata un’invasione sovietica). Questi due personaggi così passionali, idealisti e senza macchia sono altre due vittime della strage e di quella bilancia che pende da un lato a incolpare senza nessuna reale prova gli anarchici rossi, e dall’altro a voler fornire un capro espiatorio all’interno delle forze dell’ordine, messe in discussione dall’opinione pubblica di quegli anni, disillusa e senza fiducia. Ma questo è anche un film corale nel quale vediamo sfilare personalità come Aldo Moro, allora Ministro degli Esteri che intraprendeva la sua “perdente” apertura a sinistra, il Presidente della Repubblica Saragat e quello del Consiglio Rumor, tutte sapientemente gestite da Giordana, il quale tesse il racconto con sobrietà e onesta compostezza, provando ad illuminare con la luce dell’arte una pagina buia della nostra storia che non va in alcun modo dimenticata.
Serena Guidoni