I più grandi di tutti – Recensione
C’è stato un periodo in cui, nel circuito alternativo della scena musicale italiana dei primi anni ’90, i Pluto andavano forte. Veri e propri animali da palcoscenico, sboccati fino all’inverosimile, dal suono duro e grezzo arrivavano dalla provincia livornese e giravano l’Italia con un furgoncino scassato e la voglia di far casino e un giorno finalmente sfondare. Con tre album all’attivo e un brano piazzato in uno spot pubblicitario, poco importa fosse quello di un anticalcare, e non quello di una macchina come avrebbe preferito il cantante, per una questione d’immagine e di certo anche economica, i Pluto non radunavano ancora grandi masse ma si erano fatti notare.
Come spesso avviene sogni e aspirazioni durano il tempo di una stagione, così, tra liti ed incomprensioni, amplificate dal contesto e dalla giovane età, proprio come da tradizione del rock, i quattro componenti della band decidono di separarsi e sciogliersi per sempre.
Una volta persi di vista e lontani dalla musica si ritroveranno a fare i conti con la vita e saranno costretti a fare scelte che non avrebbero mai immaginato prima. Maurilio detto Mao, interpretato da Marco Cocci, cantante e frontman del gruppo, play boy impenitente e sguaiato, si ritroverà spennato a fare il barman in un locale, Loris (Alessandro Roja) si sposerà, avrà un figlio che non proverà alcuna stima per il proprio padre e accenderà un mutuo. Sabrina (Claudia Pandolfi), bassista trasgressiva col look da punkabbestia e il gusto per il meteorismo, si accaserà con un agente immobiliare in una villetta a schiera meschina e pretenziosa che trasuda borghesia. Rino, chitarrista virtuoso, interpretato da Dario “Kappa” Cappanera, chitarra per Pino Scotto e gli Strana Officina, finirà a far da balia al padre, reduce da due infarti, con uno stipendio da operaio presso gli stabilimenti Genchem.
Nessuno troverà la voglia e il gusto di rievocare un passato ed un’esperienza che a distanza di anni apparirà sconclusionata e senza senso, finché un trentenne appassionato e devoto (Corrado Fortuna), giornalista per una rivista musicale, non li contatterà via mail, deciso ad intervistarli tutti insieme e a riportarli sul palco per un nuovo concerto. Forzati da un misto di inconsapevole riconoscenza e senso di colpa, i quattro, pur tra antiche ruggini e vecchie recriminazioni, davanti all’ostinazione del fan costretto sulla sedia a rotelle, non riusciranno a sottrarsi ai progetti che li vedono protagonisti.
Commedia sul tempo che passa, “I più grandi di tutti” fa luce sulle disillusioni e il vuoto mentale di chi, pur protagonista inconsapevole di una stagione, ha deciso di rimuoverla completamente dalla memoria e ne ha lasciato i ricordi ad altri che invece l’hanno solo attraversata di striscio ed ne hanno trasformato le vecchie tracce in mito imperituro. Così se Loris, personaggio fluido e morbido, per niente acuto e che ha deciso di scorrere attraverso gli eventi, conserva i vecchi ricordi del passato da batterista in uno scatolone con la scritta “complessino”, Ludovico, fan e giornalista appassionato ha trasformato la sua stanza in un tempio della memoria, dove vecchie chitarre ed altri memorabilia oggi fanno i conti con un presente che ne mistifica la mitologia.
Carlo Virzì, già autore delle musiche per i film del fratello Paolo, torna alla regia dopo “L’estate del mio primo bacio” (2006), lo fa con una commedia gradevole, dove riporta la sua vecchia passione per la musica, negli anni ’90 è stato cantante ed autore del gruppo Snaporaz, ed il suo legame per la Toscana e la provincia livornese Quella Rosignano Solvay, famosa per le spiagge bianche per via dei composti chimici che lì a due passi sono trattati, e che ha già nel nome quello di un industriale e della sua fabbrica, fa da teatro alla vicenda come potrebbero farlo Manchester e Liverpool per altri gruppi musicali. Tuttavia il regista, pur tentando di rievocare lo spirito degli anni ‘90 e del loro legame con i giovani che vivono ai margini della periferia di un Italia comunque provinciale, sembra non voler mai andare fino in fondo, non voler approfondire e finisce col perdersi in qualche clichè di troppo puntando tutto sui personaggi e le ottime performance degli attori, confezionando un prodotto certo godibile ma in fondo facile facile e terribilmente ammiccante.
Daniele Finocchi