Un giorno per caso – Recensione
Un giorno qualunque, a New York. Un giorno… per caso. Si, un giorno, ventiquattr’ore: a cominciare da una serata piovosa per finire alla sera successiva. In mezzo, due genitori single con figli a carico e le difficoltà di un giorno come tanti nel caos della Grande Mela.
E’ sera, Melanie Parker (Michelle Pfeiffer) architetto che cerca di conciliare carriera e figlio, è stanca alla fine dell’ennesima lunga giornata ma deve ancora riuscire a far addormentare il piccolo Sam, emozionato per la gita scolastica che lo attende il giorno dopo. Il mattino seguente anche il giornalista Jack Taylor (George Clooney) ha il suo da fare con la figlioletta Maggie, compagna di scuola di Sam. Arrivati entrambi in ritardo alla gita scolastica, Melanie e Jack restano con i figli a carico in una giornata fitta di impegni. Dopo aver cercato di fare tutto da soli portandosi dietro i pestiferi bambini ed essersi inavvertitamente scambiati i cellulari, i due decidono di darsi una mano ad affrontare una lunga giornata, tra un battibecco e l’altro. Fino all’inevitabile avvicinamento.
Tutto è perfettamente orchestrato: lei con un figlioletto a carico, lui con la sua ‘biscottina’(come dirà al suo psicanalista) a cui badare (all’improvviso per giunta). Sottile l’incrocio. Lei, architetto di talento che progetta grandi centri ma che non riesce a organizzare in pieno le sue giornate, lui, giornalista in odore di Pulitzer a caccia di scoop politici che fa breccia nei cuori femminili. Lei e le sue diffidenze verso gli uomini (che il fallimento del suo matrimonio ha potenziato), lui e le sue idiosincrasie con le donne.
Il modello delle coppie celebri di Hollywood dell’età d’oro della commedia è evidente: chiari sono i richiami a immortali duellanti in amore come Spencer Tracy e Katherine Hepburn o Rock Hudson e Doris Day. Ma non solo, gli omaggi sono scoperti anche nell’uso di tecniche di ripresa come lo split screen nelle gustose scene delle rispettive telefonate.
I due fascinosi interpreti giocano a cane e gatto sullo sfondo dell’altra vera protagonista del film, New York. La Grande Mela e il suo traffico, i suoi taxi gialli, i suoi uffici nei grattacieli, il suo inconfondibile Central Park. Una metropoli resa ancor più speciale dalla pioggia che cade a intermittenza nel corso della giornata. Eh già, la pioggia, quasi fosse il terzo personaggio del film, dona un sapore particolare anche a New York, come accaduto più volte con Parigi. Come recitava l’immortale battuta di Audrey Hepburn nel capolavoro della sophisticated comedy Sabrina “il primo giorno a Parigi ci si procura un po’ di pioggia, una pioggia che non sia troppo forte però, e una persona veramente carina con cui girare in taxi… la pioggia è importante perché dà a Parigi un profumo speciale”.
Anche qui, sotto la pioggia della Grande Mela, i due protagonisti girano in taxi, ma sempre presi dalla fretta di spostarsi da impegno all’altro. Ed è proprio in taxi che, dopo l’ennesimo battibecco telefonico, il giornalista fascinoso pregherà la sua bambina, quando sarà una donna bella e intelligente, di non ridurre in poltiglia ogni povero diavolo che incontrerà solo perché se lo potrà permettere. Proprio come l’affascinante mamma-architetto che ha appena conosciuto. Quale migliore esemplificazione della guerra dei sessi degli anni duemila?
L’alchimia perfetta tra i protagonisti, osservati dall’alto dei suoi grattacieli da una New York complice e sorniona, la tenerezza di due bambini alle prese con genitori talvolta più infantili e testardi di loro, scambio di battute sagaci (la squadra di sceneggiatori annovera Terrel Seltzer ed Ellen Simon, figlia dell’illustre genio Neil): una ricetta vincente e un risultato piacevolmente garbato che poche volte si riesce a raggiungere. Soprattutto quando ci si muove nel delicato terreno della commedia sofisticata.
Ultima nota: la canzone dei titoli di testa che dà il titolo al film è One Fine Day nella versione interpretata da Natalie Merchant. Apertura di classe per una commedia di classe.
Elena Bartoni