Shining – Recensione
Come tutti i capolavori, “Shining” è davvero difficile da descrivere. È un film in cui lo spettatore viene devastato dalla prima all’ultima immagine e ha la possibilità di assaporare la quantità di sensazioni che una pellicola può dare.
È il 1980 quando Stanley Kubrick mette in scena uno dei più famosi romanzi di Stephen King, “The Shining”. A differenza del fedele lavoro di trasposizione fatto con “Arancia Meccanica” (1971) e “Barry Lyndon” (1975), questa volta Kubrick decide di utilizzare il testo di Stephen King solo come base per la stesura di una sceneggiatura indirizzata ad orizzonti diversi da quelli del romanzo di partenza.
“Shining” è la storia di una famiglia che si trasferisce per i mesi invernali all’Overlook Hotel, un enorme albergo sulle montagne rocciose del Colorado, completamente isolato da ogni centro abitato. Il capofamiglia, Jack Torrence (Jack Nicholson), ha infatti accettato il lavoro di guardiano durante i mesi in cui l’albergo resterà chiuso di modo che l’isolamento e la tranquillità possano essergli favorevoli nella stesura del suo romanzo. Lo seguono sua moglie Wendy (Shelley Duvall) e il loro figlioletto Danny (Danny Llyod).
Da subito, però, l’Overlook Hotel si rivela teatro di inquietanti apparizioni e terribili ricordi. Il piccolo Danny è dotato del cosiddetto “shining”, una luccicanza, un qualcosa in più che gli permette di vedere immagini del futuro o rivivere esperienze passate: l’albergo gli rivela quindi parte del suo orribile passato. Un uomo uccise le sue figlie gemelle proprio in quelle stanze tanti anni prima e a Danny capita di vedere le due bambine che giocano o fiumi di sangue che invadono i corridoi. L’isolamento, intanto, porta lentamente Jack alla pazzia, tanto che l’uomo arriva a vedere il fantasma dell’assassino delle due bambine, Mr. Grady. Convinto che la sua famiglia sia la causa del suo fallimento come scrittore, Jack decide di seguire il consiglio di Grady e di emularlo nel “dare loro una lezione”. Inizia quindi la rocambolesca fuga di Wendy e Danny dalla pazzia omicida di Jack.
“Shining”è un film curato al dettaglio sia dal punto di vista artistico che da quello tecnico. È una successione di immagini forti, di riferimenti incerti, di continue messe in discussione della trama: vi sembrerà di perdere il controllo del film e non capirete tutti i passaggi. Non preoccupatevi! È proprio ciò che Stanley Kubrick intendeva fare. Il regista crea un mondo, per poi scomporlo e ricomporlo diversamente: vuole deliberatamente mettere in difficoltà lo spettatore, vuole che egli si perda nello spazio e nel tempo. Un po’ come in “2001: Odissea nello spazio”, il tempo non ha inizio e non ha fine ed è proprio quando siete convinti di stare seguendo una trama dalla classica struttura temporale cronologica che Kubrick interviene per confondervi. D’altronde quella del grande regista americano è una filmografia impregnata dalla ricerca del “gioco” con lo spettatore, che Kubrick vuole sempre mantenere attivo. E come gran parte delle sue pellicole, “Shining” è un film che o si ama o si odia, senza vie di mezzo, ma che in qualsiasi caso emoziona. Non è un film a cui si possa restare indifferenti, positivamente o negativamente che sia. E come potremmo?
Kubrick fa un lavoro attento e misurato con tutto il suo cast. Jack Nicholson regala una delle sue migliori interpretazioni. Difficile, pressoché impossibile, togliersi dalla testa il volto di un uomo su cui la pazzia ha preso il sopravvento: i suoi occhi sbarrati, la sua risata agghiacciante, la sua voce tagliente. Così come mette i brividi l’interpretazione del giovanissimo Danny Llyod che, a sette anni e al suo primo ed unico ruolo nel cinema, riesce a calamitare l’attenzione del pubblico con la sua performance credibile ed efficace, quel tantino sopra le righe quanto basta ad essere in tono col contesto. L’unica pecca del film è probabilmente la fastidiosa mimica di Shelley Duvall, quasi una caricatura, più che un’attrice in questo ruolo.
D’altro canto però il resto è di una perfezione impressionante. La scenografia mantiene lo stesso alto livello in ogni differente contesto del film: dagli accesi, inquietanti, quasi irritanti colori dell’arredamento dell’albergo al simbolico labirinto finale, che è un po’ metafora della trappola temporale in cui Kubrick cerca di rinchiuderci durante tutta la visione. Ogni inquadratura poi, neanche a dirlo, è una continua lezione di regia: dai silenziosi, lenti, spettrali ritratti dei solitari personaggi che girano per l’albergo (come la famosissima scena in cui vediamo Danny di spalle pedalare sul suo triciclo) agli invadenti e prolungati primi piani da cui vorremmo quasi distogliere lo sguardo. Tra il cast tecnico, Kubrick vuole Garrett Brown, inventore della steadycam, che in quegli anni era stata sperimentata in svariati film, ma che in “Shining” raggiunge i massimi livelli. Questo tipo di innovazione tecnologica permette al regista di seguire gli spostamenti dei suoi attori, precedendoli o seguendoli a breve distanza, prima nei claustrofobici corridoi dell’albergo, per poi passare alla corsa senza fine nel labirinto.
Di grande impatto visivo è anche il montaggio secco: soprattutto durante le visioni di Danny, si passa violentemente, senza mezzi termini, dalle immagini “reali” a quelle che il bambino vede nella sua testa.
Un “must” per qualsiasi cinefilo, “Shining” è un film che ha ispirato tantissimi artisti a venire: basti pensare ai tributi fatti soltanto alla scena cult in cui Jack Torrence distrugge con un’ascia la porta del bagno in cui Wendy si è nascosta. Al festival di Cannes 2012 è stato presentato il documentario “Room 237”, che cerca di decodificare gli innumerevoli significati nascosti del film, segno di quanto “Shining” faccia ancora parlare di sé a più di 30 anni dalla sua uscita nelle sale.
Corinna Spirito