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Viaggio in Paradiso – Recensione

Avviso agli spettatori. Il vecchio Mel Gibson ‘action hero’ a tutto tondo è tornato. Smessi i panni del regista dalle velleità epiche e dal forte odore di sangue, il discusso divo torna a citare sé stesso e la sua icona in una nuova commedia d’azione e chiama l’esordiente Adrian Grunberg (già suo assistente alla regia per  Apocalypto) a dirigerlo (lasciando, si fa per dire, per sé i ruoli di co-sceneggiatore, produttore e interprete principale). Incollatevi alla sedia e ne vedrete delle belle.
Tutto ha inizio con la vertiginosa fuga di un rapinatore (Mel Gibson) a bordo di un’auto: sul sedile posteriore un corpo sanguinante e borse piene di milioni di dollari. Mentre la polizia di frontiera lo sta inseguendo a tutta velocità, l’uomo capovolge la sua auto varcando il muro di confine, precipita violentemente e atterra in Messico. Fermato dalla polizia messicana, viene portato nella prigione  “El Pueblito”. Il penitenziario è una vera e propria città, anzi, una vera baraccopoli dove dominano solo violenza e corruzione. In questo “inferno del crimine” il rapinatore cerca di sopravvivere stringendo amicizia con un ragazzino di dieci anni accanito fumatore. E’ proprio il giovane a spiegargli che il vero “signore” di “El Pueblito” è Javi, un ricco trafficante malato di cirrosi che sta cercando il donatore di un fegato nuovo all’interno della prigione.
La cosa che colpisce di più di questo Viaggio in paradiso è che si tratta di un vero viaggio all’inferno: destinazione “El Pueblito”, un posto davvero unico. Un microcosmo terrificante, un mondo che sembra inventato ma che è davvero esistito e conosciuto come “la universidad del crimen”, un incubo di violenza, corruzione, sovraffollamento tipico di molte prigioni messicane. Ufficialmente chiamato El Centro de Readaptacion Social de la Mesa, “El Pueblito” fu costruito nel 1956 a Tijuana per ospitare 2.000 prigionieri nel quadro di un nuovo esperimento correttivo. Permettendo ai carcerati di rimanere vicino ai loro cari in prigione, avrebbe dovuto facilitare il loro reinserimento nel mondo esterno. E così intere famiglie vivevano dentro le mura della prigione mentre altre andavano e venivano. “El Pueblito”, letteralmente “Piccola Città”  era una vera baraccopoli. C’era di tutto: ristoranti, stand e negozi di tutti i tipi, persino un barbiere, un parrucchiere e una “casa de cambio”. C’erano laboratori che producevano metanfetamine perché, naturalmente, qualsiasi tipo di droga era venduta apertamente. Il traffico era gestito da organizzazioni criminali i cui leader vivevano in una situazione privilegiata.  Solo prigionieri con disponibilità di denaro godevano di una vita dignitosa mentre altri vivevano nella miseria e nella paura. Nell’agosto 2002, poche ore frenetiche di assedio degli agenti dell’esercito messicano misero fine a “El Pueblito” e alla strana società che viveva sotto scacco dei Maizerones, la potente cupola criminale che controllava di fatto la prigione.
L’incubo del nostro prigioniero yankee comincia proprio quando entra in collisione con i “maiali che mangiano mais” (il significato di Maizerones) e sono guai. Forte è la sensazione che questo nuovo eroe di Gibson riassuma in sé le caratteristiche di alcuni celebri personaggi cui l’attore ha dato corpo e volto: dal folle poliziotto Martin Riggs della serie di Arma letale al ‘cattivo maestro’ di L’uomo senza volto (film con cui debuttò nella regia).
Action movie dalle pennellate ‘dark’ e ‘pulp’, il film paga il debito a un certo cinema di Tarantino e del ‘mariachi’ Robert Rodriguez, soprattutto nella fase finale. Epica violenta e furente che sa tanto di operazione di rilancio di una star in fase discendente, complici impopolari eccessi di razzismo e violenza. Con un viso reso ancora più ruvido dal passare degli anni, Gibson indossa ancora un volta la maschera che gli è più congeniale (e non a caso la sequenza d’apertura lo ritrae con un travestimento da clown, indossato per l’ultima rapina) e carica di furore cieco la parabola del suo detenuto ‘gringo’. Eroe granitico, ancora una volta invincibile arma letale dai lampi di lucida follia, indole dal cuore impavido ma anche dalla sensibilità fuori dall’ordinario.
Ecco di nuovo Mel Gibson (che arriva anche a imitare l’inimitabile vecchio Clint) aggiornato alla realtà di una prigione-bidonville messicana che sembra un girone infernale.

Elena Bartoni

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