Chernobyl Diaries – La mutazione – Recensione
Sei giovani turisti americani si godono un tour lungo l’Europa. Per movimentare il viaggio decidono di fare tappa in Ucraina e di affidarsi ad una guida specializzata nel cosiddetto turismo estremo. La loro meta è la città di Pripyat, abbandonata da 25 anni, dove un tempo risiedevano gli operai in servizio nella centrale nucleare di Chernobyl. Rimasti bloccati, saranno in balia delle mostruosità partorite dalle radiazioni. Alle voci produzione e sceneggiatura troviamo il nome di Oren Peli, ben noto per aver scritto e diretto una subdola operazione di marketing dal titolo “Paranormal activity”. Un film che poteva benissimo essere intitolato “come speculare su un’unica idea e vendere il nulla, a vantaggio delle proprie finanze”. In questo cupo survival horror l’esordiente Brad Parker sviluppa il soggetto scegliendo un via diversa da quella del Peli regista, ma non più di tanto. Va innanzitutto sottolineato che sebbene il prodotto non rientri nel sottogenere del finto documentario (il punto di vista non è quello di una videocamera manovrata all’interno della vicenda) l’impronta è marcatamente documentaristica. La regia sta continuamente addosso ai protagonisti e ne segue gli spostamenti con la continuità di un giornalista invisibile munito di cinepresa a spalla, senza disdegnare un massiccio utilizzo di tecniche come il carrello o la steadycam. Un simile approccio “a scorrimento” dà i suoi frutti nei primi minuti della pellicola, vale a dire in fase introduttiva e descrittiva. Gli ambienti prendono vita, almeno su grande schermo, e lo spoglio squallore di Pripyat è reso a 360°. Quando però il dramma viene innescato, e cominciano le peregrinazioni dei nostri eroi nelle zone circostanti, la formula si dimostra inadeguata o mal gestita. La sensazione è che Parker avrebbe dovuto girare sul serio un mockumentary, seguire la scia di un “ESP – Fenomeni paranormali” e di un “Diary of the dead” se non dello stesso “Paranormal activity”. Si sente nostalgia, per dirne una, di quel ritmo scandito da salti temporali causati dagli accendi-spegni dell’obiettivo. Era un espediente provvidenziale, perché consentiva di tagliare fuori il superfluo e di colmare i vuoti attraverso l’immaginazione. In Chernobyl Diaries, per la foga di tenersi perennemente incollati al personaggio, si ottiene invece un risultato spesso prolisso e dispersivo. Vediamo tutto, vediamo troppo. I tanti dialoghi, nella loro banalità e ripetitività, non riescono a fare da raccordo, mentre le scene d’azione patiscono un’andatura inutilmente trafelata. In una corsa continua, senza stacchi, è piuttosto difficile costruire un minimo di tensione. Stupiscono le accuse di insensibilità rivolte ad un film innocuo e risibile, condito da stereotipi anti-slavi talmente caricaturali da non riuscire nemmeno provocatori. Serie C al cubo, salvo le atmosfere.