Travolti dalla cicogna – Recensione
Travolti da… un mare di pellicole sulla maternità. Eh già, il tema “dolce attesa” è stato già saccheggiato tante, tantissime volte da registi e sceneggiatori per dar vita a pellicole più o meno leggere. Da Nine Months a Molto incinta, per citare solo i titoli più espliciti, non si contano le volte che il cinema è entrato in sala parto. Per restare solo a questa stagione, ricordiamo un altro titolo chiaro e tondo, Cosa aspettarsi quando si aspetta di prossima uscita nel mese di agosto.
Ora ci provano i francesi. E l’aria cambia un po’.
Ad essere Travolti dalla cicogna sono due giovani e affascinanti parigini. Lei, Barbara (Louise Bourgoin) è una studentessa di filosofia, lui, Nicolas (Pio Marmaï) è un giovane cinefilo che lavora in un negozio di noleggio film. Si conoscono, lui la corteggia a colpi di titoli di film celebri, lei cede, si innamorano e lui le chiede di avere un figlio. La passione porta i suoi frutti e in breve Barbara è incinta. Ma la gravidanza la travolge come un ciclone. Nausee, voglie, ormoni impazziti, un corpo che cambia in modo repentino: uno sconquasso. Il parto poi è un’esperienza profonda e devastante. I primi mesi di vita della piccola Léa non sono in fondo il lieto evento che Barbara pensava. E così per la coppia i problemi si fanno sempre più grandi. E tra frustrazioni tenute soffocate, liti e incomprensioni, Barbara e Nicolas si allontanano. Finché la ragazza non torna da sua madre Claire lasciando la piccola Lèa con Nicolas. Riusciranno i due a ritrovarsi?
Tratto dal romanzo “Lieto evento” di Eliette Abecassis, Travolti dalla cicogna tenta un nuovo approccio all’eterno stravolgimento che si prova nel mettere al mondo una nuova vita.
Il tema della “metamorfosi” è alla base di tutto il film. “Metamorfosi” (titolo dell’omonimo romanzo di Kafka parodisticamente citato in apertura) che si verifica nel corpo (ma non solo) di una donna quando è incinta. La metamorfosi è il filo rosso che percorre la storia: tutti gli elementi del racconto subiscono infatti un vero rovesciamento nel finale. Il film è costruito come un dittico, due metà nettamente divise dal momento centrale del parto. Una cesura, un prima e un dopo, ma non solo. Il film è sospeso tra due momenti, la fantasia iniziale e la realtà dell’evento con “una sacca d’aria tra le due parti, un passaggio che è rappresentato dal parto stesso” (parole del regista Rémi Bezançon). Nella prima parte, più onirica, si entra nel mondo di Barbara e dei suoi sogni, nella seconda, più realistica, si viene catapultati insieme alla protagonista nel caos portato dall’arrivo di una nuova vita. E la regia, con interessante scelta estetica, cambia radicalmente toni, ritmo, colori.
Un film duale che vive di rispecchiamenti e non è un caso che si apra con un’inquadratura della protagonista intenta a guardare allo specchio il suo pancione, come se la giovane donna iniziasse a rendersi conto che sta per passare dalla fantasia alla realtà, come se stesse per attraversalo davvero quello specchio.
Deliziosi anche se un po’ leziosi (ci si perdoni il gioco di parole) i due giovani protagonisti, Louise Bourgoin (vista di recente nella commedia L’amore dura tre anni) e Pio Marmaï (che ha già lavorato con Bezançon nel film Le premier jour du reste de ta vie), per nulla leziosa invece ma semplicemente grande Josiane Balasko. La sua caratterizzazione della mamma della protagonista, una donna figlia della controcultura del ’68 che ha cresciuto da sola due figlie non rinunciando a viaggi in Nepal e uso di droghe leggere ma pronta a stare vicina a sua figlia senza fronzoli e lacrimucce, è da applauso.
Un film che, al di là di alcune situazioni da cliché (dal compagno ancora immaturo e legato alla playstation e alle irrinunciabili uscite con gli amici fino alla suocera maestrina e un po’ invadente), ha il merito non da poco di grande realismo (e talvolta perfino crudezza) nella descrizione di un momento lacerante nella vita di una donna (è raro vedere in una commedia il primo piano di un’epidurale). Una pellicola agrodolce che si distingue per la volontà di raccontare la grande solitudine con cui le donne affrontano la maternità, l’abisso che si crea tra partner in seguito al parto e soprattutto per il coraggio di svelare quello che resta, forse, ancora oggi uno degli ultimi tabù della nostra società, la convinzione secondo cui avere un bambino sia una favola servita alle donne (ma anche agli uomini) senza indicazioni su come gestire quello che resta un grande shock emotivo.
Elena Bartoni