Lo squalo – Recensione
Le placide acque dell’oceano che si increspano sottilmente, quasi impercettibilmente, una musica composta da un semplice ma martellante crescendo sonoro, qualcosa si sta muovendo pronto ad attaccare e a lasciare una scia di sangue in mezzo al blu, una forza sconosciuta ma devastante destinata a impattare fortemente sull’emotività dello spettatore seduto in poltrona.
E’ lo squalo, è il film di Steven Spielberg.
La sua chiave di volta e il suo vero asso nella manica: la paura, “l’idea” della paura più che la sua forma e la sua sostanza, la suggestione di un pericolo imminente creata senza nessun particolare bombardamento visivo (come succede troppo spesso oggi). Il capolavoro di Spielberg trasformò il libro best-seller di Peter Benchley “Jaws” in qualcosa di potente e unico segnando una vera cesura nella storia del cinema. Lo squalo diventò già poco tempo dopo la sua uscita un vero fenomeno culturale (generando tre inutili sequel ufficiali e diverse “variazioni sul tema” neanche lontanamente all’altezza del primo film), ottenne la nomination all’Oscar come miglior film e vinse tre statuette per l’indimenticabile tema musicale del compositore John Williams, il miglior montaggio e il miglior sonoro. Alla sua uscita, nel 1975, fracassò ogni record al box-office diventando il film con il maggiore incasso della sua epoca, facendo guadagnare a Spielberg (che fino ad allora aveva diretto un solo film per il grande schermo, Sugarland Express del 1974, e alcuni film per la televisione tra cui Duel del 1971, che anni dopo fu distribuito nei cinema in un’edizione ampliata) quella fama che lo ha portato a compiere la carriera che tutti conosciamo.
L’uomo e le sue paure, i suoi mostri, le sue “oscure” minacce: il fulcro della storia de Lo squalo è proprio questo. Dopo un inquietante camion dall’autista invisibile ripreso nell’atto di inseguire e perseguitare un automobilista nel folgorante (il regista lo diresse a soli ventiquattro anni) iper-metaforico Duel, ecco la minaccia venire dal fondo dell’oceano. Un altro duel-lo mitologico fra l’uomo e il mostro contemporaneo, sia esso una malvagia entità tecnologica o una feroce e gigantesca creatura marina.
Spielberg ama da sempre percorrere il sentiero della minaccia e della sorpresa, prende per mano lo spettatore e lo conduce in territori dove crescono ansia, paura, angoscia, dove l’inquietudine si impadronisce dell’animo umano, sottilmente e gradualmente. Come nell’evocativa sequenza d’apertura con una ragazza che, mentre fa un bagno notturno nelle acque dell’oceano, viene di colpo strattonata verso il fondo: a quel punto possiamo solo intuire la lotta della donna con lo squalo senza che nulla di più ci venga fatto vedere. Non a caso la creatura marina non viene mostrata fino almeno a tre quarti di film. Intuiamo solo una forza oscura e distruttiva, un mostro invisibile e per questo ancora più terrificante. E’ la suggestione del non-mostrato che efficacemente cela, per il maggior tempo possibile, una creatura realizzata con pochi e rudimentali mezzi tecnici. Ennesima proiezione delle paure ataviche dell’uomo sul grande schermo? Forse, ma solo uno Spielberg così in forma ha saputo giocarci così sottilmente in un capolavoro immortale come questo.
Elena Bartoni