La Faida – Recensione
Ad otto anni di distanza dall’acclamato Maria full of grace, il regista Joshua Marston sceglie come sfondo per il suo The forgive – ness of Blood (titolo originale de La faida) il nord dell’Albania. Un’Albania fondamentalmente rurale, dove però, nonostante la presenza di internet, tv satellitari e smartphone, contestualizzino implicitamente gli eventi, alcune famiglie si trovano a fare i conti con una realtà fuori dal tempo, come nel caso dell’adempienza al codice legale del XV secolo, il Kanun. Nik, interpretato dall’esuberante esordiente Tristan Haliaj, è un ragazzo acuto al suo ultimo anno di scuola superiore alle prese con le vicissitudini di un qualunque suo coetaneo, come l’infatuazione per una sua compagna di classe e la pianificazione del futuro post diploma. La sorella di Nik, l’attrice Sindi Lacei, interpreta invece, una matura quindicenne che sogna di andare all’università. Le loro vite cambiano radicalmente quando, a seguito di un alterco legato al diritto di passaggio su un terreno, tra il padre dei due, Mark (Refet Abazi), e un suo compaesano, scoppierà una sanguinosa faida, governata dalle leggi del Kanun, che danno alla famiglia dell’assassinato, il diritto di uccidere un membro maschile della famiglia dell’omicida. Nik a questo punto è costretto ad uno straziante isolamento che potrebbe durare degli anni. Con il padre costretto a nascondersi sulle montagne, lo sconforto e frustrazione prendono possesso nell’animo del giovane che tenterà di mettere fine alla faida, rischiando di fatto la sua stessa vita.
Il regista statunitense, dopo un’evidente opera di ricerca, con l’ausilio dello sceneggiatore albanese Andamion Murataj, non si occupa propriamente del complesso sistema legislativo che regola le faide locali, ma ne descrive acutamente l’anacronismo, il paradosso, la matrice kafkiana, endemici di questi ricoveri domiciliari coatti previsti per le famiglie dell’omicida, il tutto attraverso i comportamenti, la carica emozionale dei personaggi e i meccanismi che si generano nei rapporti tra loro. Gli spaccati di vita quotidiana, con i loro silenzi, le loro pause, non vanno a compromettere la tensione instaurata da una saggia sceneggiatura, che, al contrario, pare guadagnarne in termini di intensità narrativa ed emotiva. La regia risulta essere molto asciutta e iperrealista, con scarsi movimenti di macchina e rarissimi virtuosismi, (vedi scena del collirio), il tutto non generato da una velleitaria attitudine al minimalismo ma da una ferma consapevolezza estetica, che viene affiancata ed aiutata da un’equilibrata e studiatissima scenografia (Tommaso Ortino), restituendo alla pellicola,ancora di più, un’impronta verista.
Appare poi scontanta la scelta di strutturare geometricamente l’esposizione della vita del ragazzo pre e post entrata in vigore del Kanun: si vanno a descrivere i temi dell’amore e del sogno lavorativo del Nik avente una vita normale e, simmetricamente, quasi a fungere da ragguaglio, vengono riproposti ad introduzione del codice medievale avvenuta.
L’autore ci va a raccontare una storia paradigmatica veicolata dalle diverse soggettività dei personaggi, che ne vanno ad esaltare i valori più alti, senza mai avere l’impressione che ci stia facendo la lezione. Una seconda opera che va a confermare il talento di Marston, puntando splendidamente i riflettori sul tema della giovinezza rubata, sulla negazione del diritto di avere un futuro, sul riscatto delle nuove generazioni vittime delle asprezze delle vecchie che ne fanno da sfondo. Una realtà che sembra essere lontana anni luce da noi, ma che è più vicina di quanto pensiamo.
Mauro Marrani